Il decreto Lavoro contiene il potenziamento del taglio del cuneo fiscale a 7 punti percentuali per retribuzioni fino a 25.000 euro e a 6 punti fino a 35.000 euro. Una misura che esprime la volontà del governo Meloni di favorire un aumento degli stipendi per i lavoratori dipendenti. Si parla anche di detassare la tredicesima, mentre per l’anno prossimo le aliquote IRPEF sarebbero ridotte ulteriormente, almeno ai redditi medio-bassi. I dati OCSE ci dicono che siamo l’unico caso nel mondo occidentale in cui le retribuzioni reali tra il 1990 e il 2020 sono diminuite (-2,8%).

Nello stesso trentennio, sono cresciute di oltre il 30% in Germania e Francia. Secondo Confindustria, se lo stato tagliasse la contribuzione di 16 miliardi di euro a carico dei lavoratori con stipendi fino a 35.000 euro, questi potrebbero ricevere in busta paga fino a 1.200 euro netti in più ogni anno. Insomma, un’altra mensilità.

Il ragionamento è corretto, ma il taglio del cuneo fiscale è una misura che non può essere pensata come la soluzione al male degli stipendi bassi. Per prima cosa, richiede sforzi ingenti alle casse dello stato, le quali dovranno indefinitamente nel tempo sostenere quelle dell’INPS. E questa è un’operazione rischiosa, oltre che inefficiente. Di fatto, le pensioni saranno finanziate in misura crescente dalla fiscalità generale. E’ un problema. Secondariamente, le imprese non possono pensare che l’aumento degli stipendi debba avvenire in toto a spese dei contribuenti, cioè in parte degli stessi lavoratori.

Schiaffo di Messina a imprenditori piagnoni

Un paio di settimane fa, l’annuncio-choc di Carlo Messina. Il CEO di Intesa-Sanpaolo ha fatto presente ai vertici di FABI, principale sindacato bancario, che non si metterà a negoziare dinnanzi alla richiesta di un aumento degli stipendi di 435 euro al mese. Ha accettato subito e totalmente la proposta avanzata dalla controparte, sostenendo che non avrebbe avuto altrimenti il coraggio di guardare negli occhi i dipendenti, sapendo che quest’anno la banca da lui guidata maturerà 7 miliardi di euro di profitti.

E l’anno scorso, ne ha registrati per 5,5 miliardi.

Secondo Messina, se la redditività aumenta, l’aumento degli stipendi per i dipendenti diventa doveroso. Un caso rarissimo nel panorama nazionale, non solo bancario. Uno schiaffo ai colleghi bancari che pensano, malgrado il boom di utili di questa fase, di poter tenere compressi i salari adducendo le solite lagne di sempre. Una lezione a moltissimi imprenditori “straccioni”, quelli per cui i dipendenti non possono mai avanzare pretese salariali più alte, quale che sia la condizione di salute dell’azienda. Tra l’altro, già qualche mese fa la stessa Intesa-Sanpaolo aveva avviato in sede di rinnovo del contratto l’accorciamento della settimana lavorativa a parità di salario e introdotto forme di flessibilità come lo smart working.

E’ vero, un aumento degli stipendi può avvenire solo a fronte di una maggiore produttività. Se così non fosse, i costi di produzione salirebbero e l’impresa diverrebbe meno competitiva. Alla lunga sarebbe un problema proprio per i lavoratori, perché un’azienda che non regge la concorrenza è destinata a chiudere o a rimpicciolirsi. Tuttavia, la produttività non dipende esclusivamente dai lavoratori. Essa è data dalla capacità dell’impresa di realizzare i giusti investimenti per potenziare la produzione per unità di lavoro impiegata. Ad esempio, acquistando un macchinario che agevoli il lavoro dei dipendenti e consenta loro di produrre di più nell’arco dello stesso orario aziendale.

Aumento stipendi necessario per stesse imprese

Ci sono molte ragioni per cui le imprese italiane non investono a sufficienza. Sono sottodimensionate, la burocrazia è soffocante, la tassazione disincentiva la crescita, le infrastrutture languono, certi mercati sono chiusi, ecc. Ma c’è anche che molti imprenditori hanno trovato il modo per fare profitti senza investire come i loro concorrenti stranieri: tenendo gli stipendi bassi.

Non c’è alcun impulso ad investire nel capitale fisso o nel potenziamento del know-how, se hai a disposizione una manodopera a basso costo.

C’è un detto americano, però, per cui “paga ai dipendenti noccioline e ti ritroverai scimmie a lavorare per te”. In altre parole, bassi stipendi equivalgono a scarsa produttività. Checché ne dicano gli imprenditori straccioni, è così. Nessun lavoratore s’identifica con una realtà aziendale in cui il suo stipendio è inadeguato e tra l’altro avulso dai risultati aziendali. Perché dovrei fare di più e meglio se l’imprenditore non mi riconoscerà mai una retribuzione più alta, quali che siano gli utili maturati? Un avvitamento verso il basso del tessuto produttivo, che non è sempre conseguenza delle inefficienze pubbliche.

Carlo Messina ha sbugiardato parte del sistema imprenditoriale d’Italia. Ha praticamente detto a molti piagnoni di smetterla di elemosinare prebende pubbliche per realizzare quell’aumento degli stipendi necessario dopo decenni di variazioni insignificanti e reso ormai obbligato dall’esplosione dell’inflazione. Molti replicheranno stizziti che sia facile parlare come Messina dalla posizione di banchiere. A parte che le altre banche non stanno seguendone l’esempio, siamo sicuri che molte imprese italiane non abbiano la robustezza finanziaria per migliorare le condizioni retributive dei dipendenti? Confindustria avrebbe di che fare autocritica. La furbata di scaricare sui contribuenti l’aumento degli stipendi non funziona. I lavoratori non hanno bisogno soltanto di 100 euro in più al mese. Prima lo si capisce, prima si argina il fenomeno dei posti vacanti. Con “i giovani di oggi non hanno voglia di fare sacrifici” non si va lontano.

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