Mancano poco più di cinque mesi alla data delle elezioni presidenziali negli Usa. Il prossimo 5 novembre gli americani dovranno scegliere tra il bis di Donald Trump o quello di Joe Biden. E in questi giorni è intervenuto sul tema il finanziere Bill Gross, secondo cui la vittoria del tycoon aprirebbe uno scenario peggiore per il mercato obbligazionario. Ci torneremo. Intanto, non possiamo non notare che la Federal Reserve si riunirà proprio il giorno successivo alle elezioni e annuncerà le sue decisioni sui tassi il 7.

Elezioni Usa poche ore prima del board Fed

L’appuntamento di novembre sarà importante. Ad oggi, il mercato prevede che i tassi Fed inizieranno ad essere tagliati o a settembre o proprio a novembre. Addirittura, cresce la convinzione tra analisti e investitori che non ci sarà alcun taglio dei tassi per quest’anno. I fondamentali dell’economia americana rimangono solidi, il mercato è in piena occupazione e l’inflazione continua a viaggiare ben sopra il target del 2%. Ad aprile, è scesa solo al 3,4%.

Debito e inflazione sotto le lenti

Il risultato delle elezioni Usa può rivelarsi decisivo per far propendere il governatore Jerome Powell verso l’una o l’altra direzione. Torniamo per un attimo alle dichiarazioni di Gross. Egli sostiene che se vincerà Trump, i bond faranno peggio. In pratica, si deprezzeranno e i loro rendimento saliranno. Perché? L’ex presidente propugna una politica fiscale espansiva, cioè vuole rendere permanente il taglio delle tasse varato nel 2017. E con ogni probabilità, alla scadenza questi verrebbero confermati in deficit. D’altra parte, lo stesso Biden ha tenuto altissimo il deficit in questi anni di presidenza. Per Gross, però, lascerebbe scadere il taglio delle tasse a carico dei contribuenti con reddito sopra 400 mila dollari.

Più in generale, nel 2016 si parlò di Trumpflation per descrivere lo scenario di un’eventuale risalita dell’inflazione per effetto della politica fiscale espansiva del tycoon.

Egli promette misure a sostegno della crescita economica e al contempo dazi contro le merci cinesi. C’è da dire che Biden non si è discostato di molto dal suo predecessore. Di recente ha annunciato pesanti dazi su svariati prodotti cinesi, perlopiù legati alla transizione energetica, mentre il debito federale continua a lievitare senza sosta, al ritmo ormai incontrollato di 1.000 miliardi ogni cento giorni.

Timori per il dollaro

Mettiamoci nei panni di Powell. Se dovesse arrivare a novembre senza avere già tagliato i tassi Fed o se lo avesse appena fatto per pochi decimali di punto, attenderebbe di verificare l’esito delle elezioni Usa per capire come muoversi. E magari, ne approfitterebbe per inviare un segnale al futuro inquilino alla Casa Bianca. Il rischio che la prima economia mondiale non può permettersi sarebbe di allentare la politica monetaria senza che la politica fiscale diventi più restrittiva. Alti deficit e tagli dei tassi Fed finirebbero per mandare KO il dollaro. Non una mossa astuta, mentre una parte di mondo già trama per porre fine al suo status di valuta di riserva globale.

E, soprattutto, la caduta del dollaro romperebbe quell’argine che sta impedendo all’inflazione di tendere verso una rovinosa spirale per la superpotenza. D’altra parte, tenere i tassi Fed fermi sarebbe anche un modo per Powell di avvertire il vincitore delle elezioni Usa che non potrà confidare sul sostegno monetario indiscriminato per emettere debito a buon mercato. Anche perché c’è il rischio che prima o poi l’economia entri davvero in recessione e per allora serve possedere la maggiore quantità di munizioni possibili per reagire. Oggi come oggi, Powell taglierebbe i tassi con il Pil che cresce e la disoccupazione ai minimi.

Elezioni Usa, Powell non può sbagliare

C’è di più.

Se i dati macro non autorizzassero senza ombra di dubbio un taglio dei tassi Fed, Powell potrebbe essere accusato da Trump di favorire il candidato alla Casa Bianca. Poiché i sondaggi per ora dicono che sarebbe il primo a trionfare a novembre, meglio non farselo nemico. Durante il suo mandato, “Jay” fu richiamato via X (ex Twitter) da colui che lo aveva nominato governatore l’anno prima a cessare la stretta monetaria. Fu la prima volta che un presidente in carica sin dai tempi di Ronald Reagan intervenisse sulla politica monetaria. E il governatore sa che tagliare i tassi senza un consenso unanime anche sul piano politico gli costerebbe caro. Ancora prima di mettere a repentaglio il suo destino personale, trascinerebbe nella contesa partitica l’istituto che guida da quasi sei anni.

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