Al grido di “Urrà”, il presidente Vladimir Putin ha concluso ieri il suo attesissimo discorso alla parata militare per festeggiare la vittoria dell’Urss sul nazismo nel 1945. Una decisione inevitabile, ha spiegato, l’invio delle truppe russe in Ucraina, perché a suo avviso “l’Occidente preparava un’invasione”. Insomma, la retorica di questi mesi non cambia. Ma l’arma più potente di cui il Cremlino può disporre non è forse militare, bensì economica. Nel mese di aprile, i ricavi di petrolio e gas in Russia sono aumentati al record di 1.800 miliardi di rubli, qualcosa come 25,5 miliardi di euro.
Per le casse della federazione, una pacchia. Quest’anno, il governo stima di chiudere i conti pubblici in attivo di 1.330 miliardi (19 miliardi di euro), cioè dell’1,1% del PIL. Tuttavia, poiché le entrate di petrolio e gas stanno rivelandosi migliori delle già rosee attese, probabile che l’avanzo fiscale sia ancora più alto. Pensate che a questi ritmi, nell’intero anno i ricavi derivanti dalla vendita delle due materie prime supererebbero i 14.000 miliardi, circa 4.500 miliardi (70 miliardi di euro) in più delle stime, facendo introitare allo stato almeno un altro punto di PIL.
I numeri record da petrolio e gas
Secondo l’Istituto per la finanza internazionale, quest’anno la Russia chiuderebbe con un saldo corrente attivo pari al record di 240 miliardi di dollari. E ovviamente anche questa previsione deriva da entrate di petrolio e gas in crescita di un terzo rispetto all’anno scorso a 321 miliardi di dollari.
L’Unione Europea non sta riuscendo a imporre l’embargo sul petrolio russo, a causa dell’opposizione di paesi come Ungheria e Bulgaria.
L’unico modo per colpire finanziariamente Putin sarebbe che la domanda globale di petrolio diminuisse, magari a seguito di una recessione economica di gran parte del pianeta. Nel medio-lungo termine, tale prospettiva sarebbe resa possibile solamente puntando sulle energie rinnovabili. Fino ad allora, si verificherà solo un riposizionamento dei mercati: l’Europa compra dai fornitori asiatici, i quali vendono meno greggio ai loro clienti asiatici, i quali a loro volta comprano dalla Russia.
Rischio di guerra prolungata
Paradossalmente, il super rublo di queste settimane riduce gli effetti benefici delle alte quotazioni in dollari. Ad esempio, al tasso di cambio di ieri di 69,4, un barile di Brent venduto a 110 dollari farebbe incassare ai russi 7.635 rubli. Con un cambio più debole, per ipotesi a 75, i ricavi aumenterebbero a 8.250 rubli. Ma la vera minaccia alla Russia sarebbe una momentanea incapacità di vendere tutto il petrolio e gas estratti. Rimpiazzare un fornitore con un altro è difficile per l’Europa, ma lo è anche per la Russia rimpiazzare i suoi clienti attuali con altri. Esistono contratti a lungo termine da rispettare e rotte commerciali da rivedere. Nel frattempo, le estrazioni si contrarrebbero, cosa già accaduta dalla fine di marzo. A quel punto, i benefici delle alte quotazioni sarebbero in buona parte erosi dalla minore quantità.
Ad ogni modo, Putin continua a non avere l’aria di un governante preoccupato per le sorti della Russia. Vuoi per scarsa insensibilità, vuoi perché i dittatori hanno l’abitudine di vivere in una bolla, ma forse anche perché petrolio e gas continuano a tenere a galla conti pubblici ed economia.