Taglio tasse in deficit o no?
L’idea è stata in passato largamente condivisa, anche se non attuata, da un altro premier italiano, Silvio Berlusconi, che dal suo ingresso in politica nel 1994 ad oggi ha fatto del calo della pressione fiscale il principale cavallo di battaglia. Anche l’ex premier sosteneva quella che definisce l’equazione della ricchezza (meno tasse = più consumi = più occupati e più crescita = più gettito fiscale). A differenza dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi, però, Berlusconi si limitò a sbandierare all’Europa i presunti effetti benefici di un taglio delle tasse in deficit, senza di fatto attuarlo.
Sorge spontanea una domanda: le tasse vanno tagliate in deficit o tagliando contestualmente la spesa pubblica e/o incrementando altre entrate? A tale quesito risponde la cosiddetta
“equivalenza ricardiana”, ovvero la teoria abbozzata agli inizi dell’Ottocento da David Ricardo e negli anni Settanta del Novecento meglio definita da Robert Barro, secondo i quali per gli individui sarebbe neutrale la scelta dei governi tra le 2 opzioni. Infatti, in base alla loro teoria, se un governo tagliasse le tasse in deficit, il contribuente saprebbe che il beneficio sarebbe temporaneo, in quanto la misura si tradurrà in un aumento del debito, quindi, nella necessità in futuro di aumentare nuovamente le tasse. Dunque, a fronte di un taglio delle tasse oggi si avrà un aumento delle tasse domani. Ne consegue che i consumi non dovrebbero aumentare, nemmeno se ci si aspettasse un aumento delle tasse nel lungo periodo, perché l’equivalenza ricardiana si fonda sul principio di
solidarietà intergenerazionale. In sostanza, anche se il contribuente dovesse avvertire che le tasse tagliate in deficit saranno ri-aumentate molti anni dopo, egli tenderebbe a risparmiare ugualmente i vantaggi ottenuti, devolvendoli ai figli, in modo da risarcirli dell’onere che incomberà su di loro.