Europa, debolezze strutturali nell’Unione monetaria

Analisi del mercato obbligazionario, con un focus particolare sull’Europa, alla luce dei recenti interventi delle banche centrali
7 anni fa
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La scorsa settimana le banche centrali hanno cercato di completare i loro piani per l’estate: la Federal Reserve ha alzato ancora i tassi, come previsto, e la Banca centrale europea (BCE) ha fatto un altro piccolo passo avanti verso la normalizzazione della politica monetaria. La Banca del Giappone ha lasciato la sua politica invariata ma ha rivisto al ribasso le stime sull’inflazione. Si è dunque ampliata un po’ la difformità delle politiche monetarie.

Poi ci sono l’aumento di volatilità, l’appiattimento delle curve dei rendimenti e la tendenza all’ampliamento degli spread di credito.

I rendimenti obbligazionari seguono una tendenza negativa da inizio 2018 e il rischio è che proseguano in questa direzione ancora per un po’ – osserva Chris Iggo, CIO Fixed Income di AXA Investment Managers -.

Debolezze strutturali nell’Unione Monetaria

In Europa anche in presenza di una crescita forte nell’ultimo anno, gli investitori devono domandarsi fino a che punto le prospettive restano positive se la BCE dovrà compensare l’annuncio della chiusura degli acquisti di titoli a dicembre rimandando di fatto l’aumento dei tassi dal -0,4%. Draghi ha dichiarato che i rimborsi in scadenza continueranno a essere reinvestiti ancora per un po’ di tempo, dunque, la BCE non ridurrà le dimensioni del suo stato patrimoniale consentendo il run-off delle obbligazioni. In altri termini, l’opzione put della Banca centrale europea resterà a lungo – dice Iggo -.

La crescita è oltre i valori tendenziali, la disoccupazione sta diminuendo, l’inflazione sale verso il target della BCE e la politica fiscale non è più restrittiva. Eppure la banca centrale non crede di poter fare di più se non annunciare la riduzione degli acquisti mensili a 15 miliardi di euro al mese per tre mesi, prima della chiusura del piano a dicembre.
Perché accade questo? Perché la crescita potrebbe rivelarsi più fragile del previsto – prosegue Iggo -; dopo tutto ha rallentato molto nel 1° trimestre e si sta riprendendo con difficoltà.

Forse l’aspetto più importante è che ci sono debolezze strutturali nell’unione monetaria.

L’Italia, ad esempio, ha un governo che riflette un enorme consenso per gli euro-scettici, e il tail risk che il Paese lasci l’euro non andrebbe aggravato da un intervento più aggressivo sui tassi. D’altra parte, la mancanza di progressi sulla riforma istituzionale preoccupa gli investitori in vista di un nuovo shock sui mercati che sarebbe difficile da gestire, soprattutto se la BCE avrà esaurito le armi a sua disposizione.

Fiducia in calo

Per l’Europa, in particolare nel mercato obbligazionario, i premi per il rischio non sono così interessanti. Non che io creda che i rendimenti dei Bund debbano salire molto; dopo tutto la BCE continuerà a rifinanziare titoli di Stato e obbligazioni corporate. Gli spread di credito però potrebbero dover salire ancora. Infatti, più in generale, nonostante gli economisti confermino stime di crescita del Pil piuttosto positive per i prossimi due anni, credo che la fiducia nelle prospettive di crescita sia stata intaccata.

Outlook e portafoglio obbligazionario

Nel medio termine (6-18 mesi) sono più preoccupato per gli strumenti esposti al rischio che per i tassi – dice Iggo – anche se a questo punto è tatticamente difficile incrementare la duration. Quest’anno il credito ha già riportato performance negative e gli spread si sono ampliati, ma nel più lungo periodo (prima del QE), i premi per il rischio sono ancora piuttosto bassi. E naturalmente la differenza tra i mercati americani ed europei rende la vita difficile ai portafogli globali, specialmente quando il rischio di cambio deve essere coperto.

La liquidità USA, con un tasso a 1 anno del 2,5%, sembra interessante per gli investitori in dollari, ma il rendimento resta negativo con la copertura del cambio in euro.

Sul fronte del dollaro, continuano a stupirmi le previsioni così rialziste sull’euro. Dovremmo essere ricompensati da un dollaro più alto per detenere liquidità in dollari con un rendimento più elevato – conclude Iggo -.

Mirco Galbusera

Laureato in Scienze Politiche è giornalista dal 1998 e si occupa prevalentemente di tematiche economiche, finanziarie, sociali

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