Sull’ex Ilva si gioca un’altra partita per l’industria italiana sempre più in crisi

L'ex Ilva sta per finire in amministrazione controllata per la seconda volta in meno di un decennio. ArcelorMittal vuole abbandonare l'Italia
11 mesi fa
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Ex Ilva, crisi senza fine
Ex Ilva, crisi senza fine © Licenza Creative Commons

L’obiettivo era di salire a 4 milioni di tonnellate di acciaio, mentre nel 2023 l’ex Ilva ne avrà prodotto meno di 3 milioni. Lo ha confermato il ministro per il Made in Italy, Adolfo Urso, riferendo ieri in Parlamento sul caso che sta scuotendo nuovamente la città di Taranto e che minaccia migliaia di posti di lavoro. A dirla tutta, Acciaieria d’Italia si prefiggeva dal 2025 di balzare a 8 milioni di tonnellate. Numeri fantascientifici alla luce del trend recente. E tra governo italiano e ArcelorMittal è in corso un braccio di ferro duro, l’ennesimo in pochi anni.

In sintesi, questo è quanto accade: servono risorse per rilanciare lo stabilimento pugliese, che occupa direttamente 8.200 lavoratori e altri 3.500 tramite l’indotto. Da mesi il governo, presente nel capitale al 38% tramite Invitalia, chiede al socio di maggioranza indiano di mettere mano al portafogli con l’iniezione di risorse necessarie al rilancio e pari a 320 milioni di euro. ArcelorMittal non ci sta. A quel punto, Invitalia propone da qualche settimana di salire al 66%, mettendovi da sola la cifra e diluendo così al 34% la quota del privato.

Lite su governance

Dopo un secco diniego, gli indiani hanno aperto ad una possibile soluzione di compromesso: via libera all’iniezione di capitale da parte dello stato, fermo restando che la governance non si tocca. Cosa significa? I due unici soci dell’ex Ilva avevano concordato una presenza paritetica nel consiglio di amministrazione, nonostante il fatto che ArcelorMittal avesse il 62% contro il 38% di Invitalia. Al primo sarebbe, però, spettato la nomina dell’amministratore delegato. La famiglia Mittal chiede che queste condizioni non si tocchino quando le quote saranno sbilanciate a favore dello stato.

Il ministro Urso definisce tale opzione “inaccettabile” e per questo prospetta l’amministrazione controllata, anche perché i tempi stringono e l’acciaieria perde qualcosa come 70 milioni di euro al mese in media tra costi dell’energia aumentati e domanda in calo.

Le tensioni tra soci hanno spinto Banca Ifis ad annunciare che non erogherà più liquidità all’azienda. Le fatture dei clienti non saranno più scontate. Altri istituti si apprestano a seguirne l’esempio, temendo di finire scottati nel caso in cui la lite non sarà ricomposta e l’ex Ilva finisca in amministrazione controllata. Nel 2015, ciò portò a grosse perdite in capo ai fornitori.

Le ragioni di ArcelorMittal

Perché questa posizione rigida di ArcelorMittal? L’acciaieria indiana spiega di avere già investito nello stabilimento 1,87 miliardi in capitale e oltre 200 milioni per l’acquisto di materie prime. Lo stato italiano avrebbe fatto la sua parte con 1 miliardo e 80 milioni. Il Piano ambientale sarebbe costato al socio privato sui 2 miliardi e altrettanti si era impegnato a versarne lo stato. Ad oggi, però, l’esborso ammonta a soli 400 milioni. In pratica, sarebbe Roma ad essere venuta meno agli accordi. Anche se stanziasse altri 320 milioni, non farebbe che quanto promesso e non potrebbe pretendere la maggioranza in cda con annessa nomina dell’ad. Da mesi Roma promette di erogare nuove risorse attraverso i fondi europei destinati alla transizione energetica. Ad oggi non sono arrivate.

Il punto è che il braccio di ferro non è il primo. Quando ArcelorMittal acquisì l’ex Ilva nel 2018, lo stato le garantì uno scudo penale contro eventuali indagini sul mancato rispetto delle norme ambientali relative alla gestione passata. Una norma transitoria, il tempo che lo stabilimento fosse messo a norma secondo i parametri europei. Pochi mesi più tardi, il primo governo Conte revocò tale scudo e il socio privato si ritrovò legalmente scoperto. In sostanza, lo stato italiano non si mostrò di parola, ergo affidabile.

Ex Ilva come ex Alitalia?

Dal canto suo, Urso spiega che il governo non può sborsare denaro pubblico, raggiungere la maggioranza assoluta del capitale e non ottenere in cambio il controllo societario.

Ciò rischierebbe di finire sotto le lenti della Commissione europea per infrazione alla disciplina sugli aiuti di stato. L’ipotesi più credibile, a questo punto, è di una nazionalizzazione temporanea. A dire il vero, Urso vorrebbe evitarla, anche perché contraddirebbe il piano di privatizzazioni del governo di cui fa parte. Si sta affettando a cercare nuovi investitori italiani, ma la verità è che nessuno possiede competenze e risorse in grado di rimpiazzare un big player come ArcelorMittal.

E sembrano remote le probabilità che in così poco tempo il governo riesca a trovare un investitore internazionale di pregio. Anche perché lo stato italiano non gode di buona fama all’estero, noto per cambiare troppo spesso le carte in tavola a gioco iniziato. I frequenti cambi di governo non aiutano. Il caso segnala l’ennesimo allarme per l’industria italiana, la cui produzione dal 2007 risulta scesa di quasi un quarto. L’acciaieria è strategica per gli altri settori dell’economia, tra cui le costruzioni. Nell’ottica, ad esempio, di costruire il Ponte sullo Stretto, essa si rivelerebbe essenziale. Ma l’impressione è che stia facendo la fine dell’ex Alitalia: statale prima, privatizzata, rinazionalizzata e adesso nuovamente in fase di ri-privatizzazione senza che il business ad oggi si sia mostrato capace di reggersi in piedi.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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