Perché la Rai ha torto
Eppure, le polemiche intorno al rinnovo del contratto non sono una tempesta in un bicchiere d’acqua, perché segnalano una distanza siderale tra le sensibilità dell’utenza – quella che paga gli stipendi a fine mese a Viale Mazzini – e la dirigenza Rai. Fazio ha tutto il diritto di guadagnare quanto le sue capacità gli consentano, ma non in violazione di regole, che con buona pace dell’Avvocatura dello stato, erano state scritte per dare una stretta ai compensi della TV pubblica, molti dei cui volti fanno carriera spesso (si veda nel campo del giornalismo) più per compiacenze politiche che per reali meriti professionali.
Se Fazio lasciasse la Rai, sarebbe una perdita per l’azienda, non per lo spettatore, che riuscirebbe a seguirlo su un’altra rete di un diverso gruppo televisivo. Il profitto non è l’obiettivo di una TV pubblica, altrimenti agirebbe come un qualsiasi operatore privato nel campo editoriale, cosa incompatibile con la riscossione coattiva del canone Rai imposta agli utenti. In altre parole, che Fazio non possa lasciare la Rai, perché altrimenti ne verrebbero danneggiati i conti è un’ipocrisia che non si regge in piedi, per quanto in sé segnalerebbe una verità. O le leggi del mercato vengono fatte valere anche sul piano delle entrate, rinunciando all’imposizione del canone, oppure ci si rassegni a seguire altri criteri più austeri.
Quanto, infine, alla “genialata” di escludere solo gli artisti dal tetto ai compensi, sarebbe frutto di una visione contraddittoria del mercato, perché sarebbe come ammettere che la Rai non possa fare a meno di presentatori, vallette, showmen e giornalisti di qualità, quindi, con stipendi superiori ai 240.000 euro massimi imposti, mentre potrebbe benissimo essere gestita da dirigenti mediocri, in grado di accontentarsi di emolumenti non competitivi. In effetti, sono nominati dai politici. (Leggi anche: Canone Rai, ecco perché nessun governo vuole abolirlo)