Brutto colpo per Mark Zuckerberg, dopo che 48 ministri della Giustizia di altrettanti stati USA e la Federal Trade Commission (FTC) hanno depositato una denuncia contro Facebook, reo di tentare di monopolizzare il mercato dei social online. Praticamente, stavolta tutta la politica americana si trova concorde nel ritenere che il gigante del web cammini travolgendo le potenziali concorrenti minori. Nel mirino sono finite le due acquisizioni principali: quella da 741 milioni di dollari del 2012 per Instagram e la ben più onerosa da 19 miliardi nel 2014 per WhatsApp.
Facebook ha maturato nel 2019 ricavi per 70,7 miliardi e un utile netto di 18,5 miliardi, grazie ai 2,5 miliardi di utenti mensili registrati. Quest’anno, sta andando pure meglio e “grazie” alla pandemia: 57,9 miliardi di fatturato nei primi 9 mesi (+16,7%) e utile netto per 17,9 miliardi (+61%). Nelle ultime settimane, il social network è stato al centro di vigorose polemiche per avere ripetutamente censurato diversi post del presidente uscente Donald Trump. Lo stesso ha fatto Twitter, attirandosi le ire della destra americana, che sembra così di aver smesso di difendere lo strapotere mediatico e finanziario dei giganti della Silicon Valley, quando già l’elezione di Joe Biden alla presidenza preluderebbe a una politica meno benevola della Casa Bianca nei loro confronti per ragioni di difesa della concorrenza.
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Zuckerberg ha ottime ragioni da opporre alla FTC, dato che fu la stessa authority a dare l’OK ai due acquisti ora recriminati. Se si rimangiasse la parola a distanza di anni, sarebbe un pericoloso precedente per la finanza americana: qualsiasi operazione finirebbe nel mirino delle autorità anche dopo molto tempo essersi conclusa, accrescendo le incertezze legali e finanziarie a carico delle società.
Troppo tardi per intervenire?
Come mai la politica a stelle e strisce si è svegliata proprio adesso e in maniera piuttosto bipartisan? Forse, non esiste un’unica spiegazione, ma c’è di certo che questi giganti del web (e non solo) inizino a fare paura. Giovedì scorso è sbarcata in borsa Airbnb, la società che gestisce il sito delle locazioni immobiliari a scopo turistico. L’IPO ha raccolto 3,5 miliardi di dollari attraverso la vendita di azioni a un prezzo unitario di 68 dollari, ma al termine della prima seduta la quotazione era esplosa del 113% a 144,71 dollari, portando la capitalizzazione complessiva fin sopra 100 miliardi. Il colosso ha chiuso i primi 9 mesi di quest’anno con ricavi crollati di un terzo a 2,5 miliardi e una perdita netta più che doppia di 697 milioni, risentendo molto duramente dell’impatto della pandemia sulla mobilità nel mondo.
E come non parlare di Tesla. Non siamo nel mondo del web, ma fa impressione lo stesso che una casa automobilistica che produce veicoli elettrici valga ormai in borsa più della somma di gran parte dei concorrenti tradizionali, avendo registrato quest’anno un boom del 630%. La stessa Google vale ormai 1.200 miliardi di dollari in borsa e 11 stati accusano il gigante di restringere la concorrenza sul mercato delle ricerche online. E Amazon? Mentre milioni di negozi in tutto il mondo chiudono per la pandemia, aumenta vendite e fatturato, arrivando a una capitalizzazione di 1.560 miliardi. Senonché, queste valutazioni così estreme risentono anche e, forse soprattutto, dell’eccesso di liquidità sui mercati, iniettata dalle banche centrali per reagire alla crisi e, in un certo senso, far contenta proprio la politica.
La sensazione è che la politica americana abbia compreso con colpevole ritardo che la situazione sia sfuggita di mano.