I colossi della tecnologia attirano sempre più non solo invidia, bensì pure critiche per il loro modo di gestire gli affari. Una polemica in questi giorni è esplosa a proposito della loro politica commerciale. La cosiddetta pubblicità mirata o “ad targeting” consente alle imprese di puntare in maniera più appropriata sugli utenti che navigano su un social network o su un motore di ricerca, sulla base di determinate caratteristiche, tra le quali le espressioni digitate sul sito e l’appartenenza a gruppi.
Stessa prova con Google, su cui digitando espressioni come “perché gli ebrei sono la rovina del mondo” e “la rovina dei bianchi”, il motore di ricerca ne elencava altre, del tipo “la rovina dei neri nel tuo vicinato”, “parassiti ebrei”. E anche in questo caso, l’organizzazione è stata in grado di acquistare pubblicità, puntando sugli utenti in un qualche modo connessi a tali espressioni razziste, di odio. Mountain View, però, si è difesa, sostenendo di avere successivamente informato il cliente che tali parole non fossero almeno in parte acquistabili per fare pubblicità, mentre la creatura di Mark Zuckerberg (di origini ebraiche) si è scusata e ha ribadito l’intenzione di lavorare ancora più duramente per migliorare il suo sistema di algoritmi per la gestione delle campagne pubblicitarie.
Big data alla mercé dei pubblicitari
Per non parlare di Twitter, che secondo una ricerca di Daily Beast offrirebbe ai pubblicitari la possibilità di puntare su 26,3 milioni di utenti connessi all’espressione “sporco messicano”, 18,6 milioni legati alla parola “nazi” e 14,5 a “negro”. Anche in questo caso, la società si difende, sostenendo che già al momento della ricerca condotta dal quotidiano, tali termini non risultavano più acquistabili per fare pubblicità.
Intendiamoci, se una società volesse puntare su un target di razzisti, non necessariamente significa che essa lo sia a sua volta. Gli affari sono affari. Se si scoprisse, per puro esempio, che coloro che frequentano comizi e raduni anti-semiti siano anche più inclini a bere birra, sarebbe quasi naturale che una società produttrice della bevanda cercasse di raggiungerli sul web, facendo comparire la propria immagine su potenti mezzi di comunicazione di massa, come Facebook, Google, Twitter, Snapchat, etc. (Leggi anche: Ricerche Google, Commissione UE pensa a maxi-sanzione)
Certo, sarebbe efficace per il business, ma non etico. E non che i due aspetti vadano spesso d’accordo e che sia la prima volta che una campagna pubblicitaria scavalchi i codici etici scritti e non. Lo scorso anno, YouTube (società controllata da Google) fu oggetto di un boicottaggio da parte di numerose multinazionali, dopo che si scoprì che diverse pubblicità erano state caricate su siti di istigazione all’odio e che poco avevano a che vedere con i marchi sponsorizzati. (Leggi anche: Pubblicità YouTube, boicottaggio multinazionali)
Quel che maggiormente rileva in questa vicenda è come i colossi della cosiddetta “big tech” siano ormai in grado di vendere l’utente ai pubblicitari, conoscendo le sue preferenze più di quanto non sia in grado nemmeno un amico o un parente stretto, perché nel “segreto” di internet, ciascuno digita ciò che più lo interessa, senza le remore della stigmatizzazione sociale.