Silicon Valley non paga per quel che “acquista” a costo zero
I colossi della tecnologia mettono a disposizione delle imprese strumenti avanzatissimi, con i quali ottenere il massimo risultato possibile, cosa che fino all’altro ieri non era possibile, se non fino a un certo punto. La domanda che ci si pone, tuttavia, è se questo modus operandi sia anche frutto di un qualche merito particolare o se le multinazionali della Silicon Valley, in particolare, non siano diventate semplicemente una macchina autorizzata a stampare soldi senza sostenere un costo adeguato.
A ben pensarci, Google e Facebook, solo per citare le due grandi società della “big tech”, non farebbero altro che carpire informazioni degli utenti e venderle alle imprese che ne hanno bisogno per le loro strategie commerciali. Il fatturato è enorme: tra il social di Zuckerberg e la controllata di Alphabet ci sono stati ricavi per oltre 120 miliardi nel 2016. E il margine operativo di Facebook nei 12 mesi al giugno scorso risultava del 42%, quello di Google del 23,2%. Nel primo caso è palesemente altissimo, ma anche nel secondo si mostra più elevato dell’87% delle 366 imprese globali.
Se questi numeri spiegano qualcosa è che i colossi tecnologici fatturerebbero molto e spenderebbero poco. Di fatto, il loro business consiste nel prendere dati dell’utenza a costo quasi zero (offrono un servizio apparentemente “gratuito”) e fornirle a chi ne ha bisogno. Se un iscritto a Facebook o un navigatore del web dovessero essere pagati per i dati preziosi da loro forniti e sui quali verranno maturati i ricavi delle società clienti della “big tech”, tali informazioni diverrebbero molto meno una macchina da soldi per chi le vende e molto più costose per chi le acquista. Viene da chiedersi se riporre così tanta attenzione ai “big data” non finisca per deprimere le strategie di marketing, riducendole a una semplice osservazione di risultati di algoritmi digitali.