La globalizzazione è finita per gli squilibri macro a cui nessuno ha dato risposta

I dazi di Trump segnano la fine della globalizzazione, ma le vere cause vanno ricercate negli squilibri macro perpetui di questi decenni.
3 settimane fa
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Fine della globalizzazione
Fine della globalizzazione © Licenza Creative Commons

L’immagine del presidente americano Donald Trump con il cartello sui dazi reciproci applicati stato per stato è l’immagine plastica della fine di un’era: quella della globalizzazione. Chi sostiene che sia un’affermazione esagerata o che si tratti di un processo irreversibile, forse non sa che che eravamo già all’interno della terza ondata e che anche le precedenti due erano finite. La prima aveva attecchito con l’industrializzazione ed era cessata con la Prima Guerra Mondiale. La seconda era arrivata dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche se era stata perlopiù relegata alle economie occidentali con l’intensificazione dei commerci. Infine, la terza è stata quella che ci ha accompagnati dalla fine della Guerra Fredda, la caduta dei regimi comunisti e l’apertura al libero mercato delle relative economie.

Fine globalizzazione, quali cause?

Cosa ha segnato la fine dell’ultima ondata di globalizzazione? Gli storici avranno un bel da farsi. Il Covid e la conseguente chiusura delle frontiere ha fatto certamente la sua parte, così come subito dopo la guerra tra Russia e Ucraina con l’interruzione dei commerci tra Occidente e un pezzo di Asia. Tuttavia, dovremmo tornare indietro almeno al 2008 per capire cosa sia davvero andato maledettamente storto. La crisi finanziaria mondiale scatenata dal collasso del mercato dei mutui subprime fu la vera picconata al capitalismo nell’era moderna.

Le banche si salvarono dal patatrac solo con danarosi salvataggi statali e maxi-iniezioni di liquidità sui mercati finanziari. Le banche centrali si trasformavano definitivamente nel pronto soccorso dei finanzieri, punendo i risparmiatori e puntando a salvare conti pubblici e istituti di credito.

Il processo di formazione dei prezzi per gli asset finanziari ne risultò distorto, venendosi a creare bolle finanziarie sempre più gigantesche e potenzialmente impossibili da gestire. Nel frattempo, i tassi di cambio si sono mossi sull’onda più delle politiche monetarie che dei fondamentali macro. I commerci ne risultano anch’essi distorti, in quanto frutto di squilibri macroeconomici sempre più definitivi.

Il precedente di Bretton Woods

Più di mezzo secolo fa, l’Occidente si ritrovò a gestire una situazione molto simile. Non si gridò allora alla fine della globalizzazione, semplicemente perché non si aveva consapevolezza della sua esistenza. L’amministrazione Nixon dichiarava morto l’Accordo di Bretton Woods, non potendo più garantire la convertibilità del dollaro in oro. Ne seguì il caos. Volatilità dei cambi, inflazione alle stelle, instabilità finanziaria, crisi economica, tutto aggravato dalle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979.

Quali furono le cause di quell’evento? L’America in guerra con il Vietnam aveva la necessità di fare debiti per finanziare le spese militari e Bretton Woods limitava la sua capacità di “stampare moneta”. In verità, già da prima l’accordo vacillava per i crescenti surplus commerciali di Germania e Giappone. L’America importava troppo da queste due economie e ciò metteva a rischio il dollaro in un sistema di cambi fissi e ancorato al metallo giallo.

Allora come oggi, nessuno puntò a risolvere gli squilibri macroeconomici. L’ottusa difesa dello status quo portò al collasso del sistema globale.

Squilibri macro vera fonte di instabilità

Anche in questi anni abbiamo deficit fiscali americani insostenibili, così come surplus commerciali di economie come Germania e Cina altrettanto segno di squilibri interni. I tedeschi spendono troppo poco, gli americani troppo. Perché? I primi si avvantaggiano di un euro debole che consente loro di esportare molto e consumano poco per via dell’austerità fiscale. I secondi si avvantaggiano di tassi relativamente bassi per indebitarsi nel settore sia pubblico che privato, mentre il dollaro valuta di riserva mondiale si rivela troppo forte e rende convenienti le importazioni. D’altra parte, economie come l’Italia con un euro relativamente forte per i loro fondamentali, hanno attuato per decenni la svalutazione salariale per rilanciarsi sui mercati internazionali.

L’America non vuole rinunciare al suo “privilegio esorbitante” di avere il dollaro come primo asset tra le riserve valutarie di tutto il mondo. Questo la spinge a indebitarsi e a produrre i ben noti “deficit gemelli” (fiscali e commerciali), perché alla fine le leggi dell’economia valgono per chiunque. Gli altri immaginano di poter sfruttare mercati di sbocco ricchi come gli USA per vendere le loro merci e ignorare i problemi domestici, tra cui la bassa domanda interna. L’incapacità e la mancata volontà di risolvere tali squilibri hanno portato alla fine della globalizzazione.

Fine globalizzazione dannosa per tutti

Essa è stata un periodo caratterizzato dal libero commercio, pur in presenza di un dislivello di regole a dir poco assurdo. Ne hanno beneficiato complessivamente consumatori, imprese, persino lavoratori, anche se in proporzioni assai diverse. Abbiamo potuto comprare a prezzi bassi merci e servizi quantitativamente disponibili in abbondanza. I consumi si sono massificati, le differenze visive tra ricchi e poveri si sono ridotte, nel senso che all’apparenza compriamo tutti un po’ le stesse cose. Ma i lavoratori esposti alla concorrenza mondiale hanno visto ridurre la loro capacità di acquisto, mentre le nicchie al riparo dalla concorrenza hanno potuto accrescerla anche notevolmente. Ciò ha portato all’insofferenza verso la globalizzazione, ergo la politica che l’ha difesa a spada tratta.

La fine della globalizzazione non sarà una passeggiata di salute per nessuno. Implica costi di produzione e prezzi al consumo più alti, minore disponibilità di beni e servizi, minore scelta. Se qualcuno immagina che perlomeno si riporteranno a casa posti di lavoro andati perduti a causa delle delocalizzazioni, si ricreda. Pensate che un’impresa voglia tornare a produrre in un’economia tartassata, iper-burocratica e con poca manodopera qualificata come l’Italia? E anche se ciò avvenisse, il beneficio sarebbe verosimilmente surclassato dai costi di cui sopra. Non facciamoci illusioni e non cadiamo nel tranello di trovare il capro espiatorio di turno. La globalizzazione è finita perché è stata gestita su un piano di dislivello, avvantaggiando colossi come la Cina a discapito di chi ha ingessato le proprie imprese con regolamentazioni e pressione fiscale soffocanti.

giuseppe.timpone@investireoggi.it 

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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