E’ noto che i contributi di chi lavora oggi servano a pagare le rendite di chi è già in pensione o sta per andarci. E’ il funzionamento del sistema a ripartizione dell’Inps che si basa su un semplice meccanismo redistributivo dei fondi a circuito chiuso.

Fin qui nulla di nuovo, ma del “doman non v’è certezza”. Del resto, se le entrate contributive diminuiscono (come sta accadenso) e le uscite aumentano (pensioni), si va verso uno scompenso finanziario che presto o tardi renderà insostenibile la spesa previdenziale.

Spesa per le pensioni in aumento

Ciò premesso, la spesa per le pensioni in Italia rischia di andare fuori controllo. Ne è la dimostrazione la recente manovra finanziaria che ha ristretto le possibilità di uscita anticipata per uomini e donne con l’introduzione di Quota 103 e Opzione Donna ridimensionata.

L’allarme arriva, però, dall’Inps e non è la prima volta che suona. Nel suo bilancio di previsione per il 2023 l’Istituto Nazionale di Previdenza stima un risultato economico di esercizio negativo per oltre 9,7 miliardi di euro. Soldi che dovranno essere recuperati da qualche taglio e/o da maggiori entrate contributive.

Colpa dell’inflazione, vero, che obbliga l’Inps a spendere di più per le pensioni. Le rivalutazioni costeranno infatti 20 miliardi di euro in più, a occhio e croce, per una spesa previdenziale che quest’anno varcherà la soglia dei 325 miliardi di euro per puntare verso i 350 miliardi nel giro di tre-quattro anni.

Al punto che il presidente dell’Inps Pasquale Tridico aveva già avvertito il Parlamento che, in assenza di interventi sulla spesa pensionistica e assistenziale, entro il 2029 l’Inps avrà un patrimonio negativo di 92 miliardi di euro.

La perequazione automatica è sicuramente una causa del peggioramento dei conti, ma non è l’unica. A pesare sulla bilancia dei pagamenti è il numero maggiore di pensioni rispetto al previsto che occorre sostenere.

In sintesi, quelle derivanti da Quota 100 come evidenziato dai dati dell’Osservatorio sui flussi pensionistici dell’Inps.

Dove vanno a finire i contributi versati

Chi lavora non si preoccupa di come e dove vanno a finire i contributi versati. Gli basta sapere che un domani serviranno per ottenere la pensione. Ma questo è un ragionamento molto riduttivo, perché i contributi obbligatori che si versano ogni mese alimentano diversi fondi che prevedono diverse tipologie di assicurazione. Di cui la pensione è la più nota, ma non meno importante delle altre.

Quote contributive servono per tutelarsi, non solo contro la vecchiaia, ma anche contro l’invalidità, la cassa integrazione, la malattia, la disoccupazione, la reversibilità, ecc. Tutte forme a sostegno del reddito. Di quel 33% di imponibile previdenziale calcolato dal reddito, solo una parte è destinata all’assicurazione contro la vecchiaia, cioè la pensione.

Il tutto è naturalmente gestito dall’Inps che amministra i relativi fondi ai quali ogni lavoratore è iscritto in base alla tipologia di contratto e di lavoro che svolge. L’Inps gestisce il 96% dei fondi pensionistici nazionali e solo il 4% è amministrato da casse pensionistiche diverse.

Ovviamente anche l’Inps funziona come tutte le altre assicurazioni, ma senza fini di lucro. Per cui, tanto entra e tanto dovrebbe uscire. Ma non è così. Di fatto, nel complesso, sono più i soldi che escono di quelli che entrano. Motivo per cui si sta cercando di tagliare le pensioni che rappresentano la spesa maggiore della previdenza pubblica.

La pensione futura

La preoccupazione maggiore di questo scenario riguarda le prestazioni future, in particolare le pensioni dei giovani lavoratori di oggi. Quelli che più di tutti stanno pagando il conto di macroscopici errori del passato. Quota 100 è stato solo l’ultimo e nemmeno il peggiore di questi errori.

Il più grosso, se vogliamo, ha radici lontane e parte dalle riforme del governo Rumor degli anni ’70 (baby pensioni).

Senza dispensare la riforma Dini del 1995 che mandò in soffitta il sistema di calcolo retributivo delle pensioni per adeguarlo a quello nuovo contributivo soltanto a regime. Ancor oggi dobbiamo aspettare una decina d’anni prima che sparisca del tutto. Intanto però continuiamo a pagare, con interventi assistenziali costosi, rendite che non trovano corrispondenza coi contributi versati.

Tutto ciò implica che qualcuno dovrà pagare il conto. E questi sono i giovani, costretti a lavorare di più e che non avranno nemmeno le garanzie che sono state riservate ai loro predecessori. A partire dalle garanzie minime costituite dal trattamento minimo di pensione, riservato solo a coloro che ricadono nel sistema retributivo, cioè che hanno iniziato a lavorare prima del 1996.