L’INPS ha pubblicato il rapporto annuale sulle pensioni. La relazione prende in esame, per il 2021, la situazione del Paese, con particolare attenzione alle più rilevanti prestazioni erogate dall’Istituto e alla dinamica dei contribuenti. Sotto la lente anche le pensioni future.

Il quadro che emerge per i prossimi anni è a dir poco allarmante.

Prendendo a riferimento i lavoratori appartenente alla classe nata tra il 1965 ed il 1980, emerge che questi, per vedere la pensione, dovranno lavorare in media (minimo) tre anni in più.

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Per le pensioni future, il rischio è anche quello di giungere a vivere sotto i livelli di povertà. Oggi si lavora anche per 9 euro l’ora.

Lavorando così per tutta la vita, si stima un calcolo dell’assegno pensionistico mensile (che si andrà a percepire) intorno ai 750 euro. Un valore di poco superiore al trattamento minimo. La domanda, quindi, è se davvero conviene lavorare a queste condizioni. Non lavorando si ha un assegno minimo, comunque, di circa 524 euro mensili.

Un dato preoccupante questo se lo si confronta con quello odierno. Oggi, dei pensionati italiani, il 97% circa percepisce almeno una prestazione dall’INPS e ha un reddito lordo mensile medio di circa 1.640 euro.

Il restante 3% non beneficia di nessuna prestazione da parte dell’INPS, ma percepisce rendite INAIL o pensioni di guerra o ancora pensioni da Casse professionali, Fondi pensione e Enti minori.

Ecco che per il futoro, forse, oltre al sistema pensionistico pubblico, bisognerebbe spingere anche di più verso una pensione complementare. Il sistema pubblico da solo (come strutturato adesso) non garantirà una vecchiaia dignitosa alle attuali e nuove generazioni di lavoratori e lavoratrici.