Persuadere il datore di lavoro dal licenziare un dipendente e cercare di preservare i posti di lavoro. Questa è la motivazione principale per la quale è nata nel 2012 una tassa in più per il già tremendamente rigido sistema fiscale italiano. Parliamo del ticket licenziamento, un autentico contributo che un datore di lavoro deve pagare per licenziare un dipendente. Una tassa variabile in base all’anzianità di servizio del dipendente.

“Buongiorno, sono Fabrizio, lavoratore dipendente del settore privato. Il mio datore di lavoro mi sta chiedendo di dare le dimissioni volontarie.

A dire il vero sia lui che io siamo intenzionati a risolvere il nostro rapporto di lavoro. Io voglio andare via, ma soprattutto, è lui che vuole cacciarmi perché deve assumere il suo nuovo genero. Ma io di dimettermi non ho voglia. Anche perché, pur se in trattativa con un altro datore di lavoro, volevo mettere al sicuro la mia disoccupazione. E se mi dimetto rischio di perdere tutto. Lui invece sostiene che se mi licenzia, deve pagare una penale all’INPS. E non vuole accollarsi quest’altra spesata.”

Meno licenziamenti, ecco l’obiettivo del ticket nato con la legge Fornero

Fu la legge Fornero, nata in un periodo di grave crisi economica, a far nascere il cosiddetto ticket licenziamento. Si tratta del contributo che un datore di lavoro deve versare all’INPS nel momento in cui licenzia qualche dipendente. Ed a prescindere dal fatto che il licenziamento sia individuale o collettivo. Come dicevamo, una misura nata con la riforma Fornero per cercare di bloccare i licenziamenti in una fase, quella del 2011/2012, di grave crisi economica in Italia.

Il ticket licenziamento in breve, ecco come funziona

Sul datore di lavoro che vuole mettere alla porta un suo dipendente grava un onere aggiuntivo che è quello del cosiddetto ticket licenziamento. In pratica il datore di lavoro deve versare all’INPS un contributo per ogni dipendente mandato via che rientra nel perimetro della NASPI.

questo contributo aggiuntivo dovuto dal datore di lavoro serve proprio per finanziare la NASPI dei lavoratori stessi. Infatti il ticket non vale per le dimissioni volontarie del dipendente, perché la perdita del lavoro sarebbe volontaria e il diretto interessato in questo caso non ha diritto alla NASPI.

Ma spesso datore di lavoro e lavoratore sono su due direzioni non coincidenti

Evitare licenziamenti a iosa, questo l’obiettivo della norma sul ticket licenziamento. Ma sono anni di funzionamento, qualcosa non è andato per il verso giusto. Per esempio, ci sono datori di lavoro che pur di non spendere soldi per il ticket, adottano pratiche spesso ai limiti della legalità per spingere un lavoratore a dimettersi. E così che un lavoratore che vorrebbe farsi licenziare, trova l’aut aut del datore di lavoro, che preferisce ricevere le dimissioni volontarie in modo da non dover pagare nulla.

Va detto però che se il dipendente si dimette per giusta causa, dimostrando che il datore di lavoro ha adottato strani comportamenti per favorire le sue dimissioni e non il licenziamento, il ticket sarebbe dovuto comunque. Infatti anche per le dimissioni volontarie i datori di lavoro devono versare il cosiddetto ticket.

Gli importi del ticket licenziamento

Come detto in premessa, il ticket licenziamento è commisurato alla durata del rapporto di lavoro del dipendente interessato. Si parte dalla cifra massima di NASPI fruibile dai lavoratori nell’anno del licenziamento. Ed è pari a 1.470 euro il massimale NASPI 2023. Il ticket licenziamento è pari al 41% di questo massimale, e cioè chi licenzia un dipendente deve versare qualcosa come 603 euro. Ma solo se ad essere licenziati sono lavoratori con massimo 12 mesi di servizio con lo stesso datore di lavoro. Perché per anzianità fino a 24 mesi la cifra è raddoppiata e diventa tripla per dipendenti con 36 o più anni di servizio.

Per questo è evidente che i datori di lavoro, come quello del nostro lettore, è restio a licenziare. L’esborso, che tra l’altro va versato con modello F24, è spesso altissimo.