Anche se al momento non abbiamo notizie certe, questo scenario sembra il più probabile, almeno stando a quello che si apprende da indiscrezioni e ipotesi. Niente riforma delle pensioni e per molti il ritorno alla legge Fornero è servito. Perché? Il motivo è semplice.

Allo stop a qualsiasi idea di riforma del sistema e a qualsiasi nuova misura, lo scenario peggiore presenta un altro grande problema: l’addio alle misure oggi in vigore che scadono il 31 dicembre prossimo. Si tratta di Ape sociale, Opzione Donna e Quota 103.

Misure che, a dire il vero, non hanno certo cancellato la legge Fornero né l’hanno superata.

Tuttavia, queste misure hanno almeno alleggerito i requisiti per alcuni lavoratori, consentendo loro di accedere alle pensioni in anticipo. Senza queste misure e senza una riforma delle pensioni con Quota 41 per tutti e qualche altra misura di pensionamento flessibile, dal 1° gennaio 2025 chi vorrà andare in pensione dovrà necessariamente passare per le misure ordinarie. Queste si collegano strettamente alle norme introdotte nel 2012 dal Decreto Salva Italia del Governo Monti, con all’interno la tanto discussa riforma Fornero.

Riforma delle pensioni: ecco tre vecchie proposte per le pensioni 2025

Da anni le proposte di riforma delle pensioni si sono susseguite a ritmi costanti. Alcune di queste proposte sembravano anche ottimali sia per le aspettative dei lavoratori, sia per la necessità di varare riforme a basso costo per le casse dello Stato. Tuttavia, sembra che queste proposte siano finite nel dimenticatoio. Le riproponiamo, sperando che qualcuno pensi a farle tornare in auge.

Pensioni anticipate a 62 anni, taglio della quota retributiva ma solo fino a 67 anni: ecco come

Sicuramente la proposta di riforma delle pensioni presentata dall’allora Presidente dell’INPS Pasquale Tridico è una di quelle che ha suscitato maggiore interesse. Tridico aprì a una particolare misura di pensionamento flessibile, a partire dai 62 o al massimo 63 anni di età.

Il Presidente parlò di anticipo soft, nel senso che a 63 anni di età un lavoratore con una carriera contributiva minima doveva poter prendere una pensione contributiva, cioè priva della parte retributiva della prestazione. Naturalmente si parlava di soggetti con iscrizione alla previdenza obbligatoria antecedente il 1996. Altrimenti non c’è parte retributiva da tagliare.

Chi ha iniziato a versare dopo il 1995 ha tutti i periodi di lavoro in epoca contributiva, quindi una pensione calcolata solo con questo sistema.

In parole povere, l’ex numero uno dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale Italiano aveva proposto una pensione in due quote. La prima a 63 anni, con calcolo contributivo della prestazione. La seconda a 67 anni, quando la pensione di chi l’ha percepita già a 63 anni verrebbe ricalcolata includendo la parte retributiva precedentemente omessa.

Una misura che avrebbe garantito risparmio per le casse pubbliche rispetto a qualsiasi altra proposta di pensionamento anticipato senza penalizzazioni. Avrebbe anche facilitato il ricambio generazionale in ambito lavorativo, cercato da tempo dalle istituzioni.

La riforma delle pensioni a 62 anni con tagli lineari: cosa significa?

Ancora prima della proposta di Pasquale Tridico, ci fu una famosa proposta di riforma delle pensioni di Cesare Damiano. Quando l’ex Ministro ed esponente PD era Presidente della Commissione Lavoro della Camera, insieme a Baretta e Gnecchi, altri due parlamentari PD, promosse il DDL 857.

Nel decreto si prevedeva una riforma delle pensioni basata sulla flessibilità in uscita, con pensionamento a 62 anni ma solo con almeno 35 anni di contributi. Misura flessibile perché prevedeva tagli alla pensione per chi avesse scelto di uscire dal lavoro 5 anni prima rispetto ai 67 anni della pensione di vecchiaia ordinaria (anche se all’epoca bastavano 66 anni e 7 mesi di età).

Un lavoratore di 62 anni con 35 anni di contributi, salvo i rari casi di lavoratori rientranti nello scivolo delle pensioni usuranti, non ha possibilità di andare in pensione.

Si trova infatti a 5 anni dai 67 anni necessari per la pensione di vecchiaia e a oltre 7 anni dal completamento dei 42 anni e 10 mesi per le pensioni anticipate ordinarie.

Una soluzione che sembrava tra le poche fattibili

La riforma delle pensioni di Damiano poteva trovare molti lavoratori d’accordo. Per evitare l’impatto notevole di una misura di questo genere per le casse dell’INPS, Damiano pensò a dei tagli lineari. Niente ricalcolo contributivo a tagliare la prestazione, ma una perdita percentuale fissa per ogni anno di anticipo rispetto all’età pensionabile vigente.

Imporre tagli in modo tale che il neo pensionato prenda meno rispetto alla pensione effettivamente spettante e quindi costi poco alle casse dello Stato. Inoltre, il taglio dell’assegno è sempre un valido deterrente per chi intende andare in pensione prima. Chi non accetta il taglio non sceglie la via della pensione anticipata, riducendo così la platea dei potenziali beneficiari della misura e con vantaggi non indifferenti sulla spesa pubblica.

Tagli di assegno: anche Opzione Uomo era una proposta che prevedeva sacrifici

Il taglio imposto da Damiano nella sua proposta era del 2% per ogni anno di anticipo rispetto ai 67 anni di età. Quindi, uscendo a 62 anni, il taglio sarebbe del 10%, dell’8% a 63 anni, del 6% a 64 anni e così via. Un taglio lineare contrapposto al taglio proveniente dal ricalcolo contributivo della prestazione.

Un ricalcolo che oggi subiscono i lavoratori che escono con Quota 103 e che da sempre subiscono le lavoratrici che hanno sfruttato, o continuano a sfruttare, Opzione Donna. Proprio da Opzione Donna parte un’altra proposta che sembrava avesse fatto proseliti ma che è stata accantonata da tempo: trasformare il Regime Anticipato Sperimentale Contributivo Donna in una misura strutturale aperta a tutti i lavoratori.

Si parlava di una riforma delle pensioni con Opzione Uomo o Opzione per tutti, consentendo a tutti i lavoratori, indipendentemente dal genere, di accedere alla pensione una volta raggiunti i 58 anni di età e 35 anni di contributi per i dipendenti, e 59 anni di età e 35 anni di contributi per gli autonomi.

Esattamente come era una volta Opzione Donna.

Quest’ultima misura è stata modificata negli ultimi due anni, riducendo drasticamente la platea delle beneficiarie. Oggi non tutte le lavoratrici possono accedere a questa misura, destinata solo a invalide, caregiver, licenziate o in aziende in crisi. Inoltre, l’età è stata innalzata a 61 anni.