La Riforma Dini e la Legge Fornero hanno contribuito a cambiare il mondo delle pensioni. Come canta Emma Marrone con il brano Trattengo il fiato: “E mi concedo a un altro rischio da affrontare, perché a volte una porta può sembrarti una svolta, ma l’hai chiusa ogni volta”.

Prima o poi può capitare a tutti di vivere un momento di svolta. Può accadere, infatti, qualcosa che stravolge completamente la propria vita, cambiando per sempre il corso delle cose.

Una situazione che può riguardare sia la sfera privata che quella professionale.

Proprio in tale ambito si inseriscono i vari cambiamenti normativi che hanno, inevitabilmente, un impatto sulla nostra quotidianità. Basti pensare alla Riforma Dini e alla Legge Fornero che hanno rivoluzionato il sistema pensionistico del nostro Paese. Ma quale delle due misure ha davvero cambiato tutto?

Riforma Dini o Legge Fornero? Ecco quando è veramente cambiato tutto per le pensioni

Uno degli obiettivi di legislatura del governo Meloni è di allontanare lo spettro della Legge Fornero. In seguito all’entrata in vigore di quest’ultima misura, per andare in pensione i lavoratori devono avere almeno 67 anni di età e maturato 20 anni di contributi. Requisiti particolarmente elevati, che rendono l’accesso a tale trattamento una vera e propria utopia.

Fanno eccezione coloro che possiedono determinati requisiti che permettono di uscire anticipatamente dal mondo del lavoro, come ad esempio i lavoratori precoci.

In particolare, stando sempre alla riforma Fornero del 2011, la pensione anticipata è riconosciuta, a prescindere dall’età, agli uomini che hanno maturato almeno 42 anni e 10 mesi di contributi. Tale soglia è di 41 anni e 10 mesi per le donne. A rivoluzionare davvero il mondo delle pensioni, però, ci ha pensato la Riforma Dini che ha introdotto un nuovo modo per calcolare l’importo del trattamento pensionistico.

Dal metodo di calcolo retributivo al contributivo: cosa è cambiato con la riforma Dini

Sino 31 dicembre 1995 gli assegni pensionistici venivano determinati utilizzando il sistema retributivo.

Ovvero teneva conto della media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di attività. Con il trascorrere degli anni, complice l’invecchiamento della popolazione e l’andamento demografico, si è assistito a una crisi del modello retributivo. Per questo motivo è stato necessario rivisitarlo. A tal fine, come ricordato sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali grazie alla legge numero 335 datata 8 agosto 1995, meglio conosciuta come riforma Dini, è stato introdotto:

“il sistema di calcolo contributivo, disponendone la totale applicazione nei confronti di tutti gli assicurati a decorrere dal 1° gennaio 1996. Il sistema contributivo rappresenta una forma più equa di determinazione della prestazione pensionistica, in quanto pone in diretta correlazione quanto versato con quanto il soggetto verrà a percepire; i contributi accantonati (c.d. montante) vengono, infatti, convertiti in rendita attraverso coefficienti di trasformazione calcolati in ragione dell’età di pensionamento e della conseguente attesa di vita”.

Dal punto di vista della determinazione dell’importo, pertanto, il sistema contributivo risulta essere meno vantaggioso rispetto a quello retributivo. Ad avere una certa incidenza in tale ambito comunque, ricordiamo, è il coefficiente di trasformazione che risulta essere più alto all’aumentare dell’età in cui si va in pensione. Ne consegue che più tardi si esce dal mondo del lavoro, più alto sarà l’importo dell’assegno pensionistico.