La premier Giorgia Meloni e la segretaria del PD, Elly Schlein, unite nel dire no all’uso dei fondi di coesione per finanziare il riarmo. Per una volta l’Unione Europea sembra avere messo d’accordo, almeno su un punto, le due principali leader politiche italiane. Per il resto le posizioni continuano a divergere. Il governo, pur con i mal di pancia della Lega di Matteo Salvini, si mostra favorevole all’incremento delle spese militari, se scorporato dal computo del deficit ai fini del Patto di stabilità. E giovedì scorso ha votato a favore di tale proposta della Commissione e della richiesta della Germania di sospendere le regole fiscali comunitarie per i maggiori investimenti nella difesa.
Fondi di coesione, come funziona
La posizione di Schlein è ben diversa: no al riarmo, se non attraverso emissioni di debito comune e purché destinate a finanziare investimenti europei e non nazionali. Non combacia con quella dei socialisti all’Europarlamento di cui il PD fa parte, che si mostrano aperti alla proposta di Ursula von der Leyen. Ma tornando ai fondi di coesione, vediamo cosa sono e perché l’Italia non concorda con l’idea di Bruxelles.
Si tratta grosso modo di stanziamenti del bilancio comunitario in favore delle aree economie depresse. In buona sostanza, denaro che arriva alle regioni per essere investito nel potenziamento dello sviluppo locale. Il Mezzogiorno è destinatario di immense risorse a cicli di sette anni, tanto è la durata di un bilancio pluriennale dell’Unione Europea. Ora che i quattrini servono più per la difesa che non per ridurre le disuguaglianze all’interno degli stati e tra stati membri, sembrerebbe che l’Italia rischi di perdere preziose risorse per cercare di colmare lo storico gap tra Nord e Sud.
Risorse UE non spese vero problema italiano
La verità è più complessa. Nel settennato 2014-2020 al nostro Paese giunsero 44,8 miliardi dall’UE, che salirono a 68,5 miliardi con il cofinanziamento nazionale. Di queste risorse alla fine del 2023 risultano essere stati spesi solo 48,5 miliardi in tutto, il 74,2% di quanto programmato. Gli impegni, invece, risultavano pari al 103% delle risorse programmate. Dunque, mancavano all’appello circa 20 miliardi.
Per quanto riguarda il nuovo bilancio 2021-2027, i numeri sono ancora più drammatici. Per quanto siamo ancora in pieno settennato, al 31 dicembre scorso risultava essere stato speso appena il 4,59% degli oltre 75 miliardi di fondi di coesione stanziati in favore dell’Italia, di cui 43,1 miliardi a carico dell’UE. Il nostro problema da sempre non è la carenza di risorse, bensì l’incapacità di spendere sui territori. Le cause vanno individuate nella complessa burocrazia comunitaria, che si somma a una Pubblica Amministrazione nazionale ottocentesca e poco collaborativa con gli attori del mercato.
La stessa domanda di risorse proviene perlopiù da soggetti economici sprovvisti di bilanci certificati, di minuscole dimensioni e senza progetti validi. Gli enti locali non fanno di meglio. Il più delle volte finiscono per finanziare iniziative di scarso impatto per il tessuto produttivo.
I risultati parlano da sé: i fondi di coesione nelle regioni del Mezzogiorno non sono mai serviti a lanciarne lo sviluppo. Diversa l’esperienza di stati come Spagna, Polonia e Ungheria, ecc. Qui, le risorse comunitarie vengono spese quasi per intero, in tempo e in favore di progetti che fungono da volano per i territori.
Burocrazia lenta e progetti poco validi
Perché la proposta europea sul riarmo non piace né alla maggioranza, né all’opposizione? Si tratta di infrangere un tabù. L’Italia non ha mai fatto i conti con le proprie inefficienze. Reclama risorse a Bruxelles, che poi neanche spende. Sta accadendo persino con il Pnrr da 192 miliardi. Al 30 settembre era stato speso appena il 30%, cioè 57,7 miliardi. E mancano 21 mesi al termine ufficiale del programma, tant’è che sottovoce si parla di allungarne la scadenza per consentire agli stati di spendere una porzione maggiore delle risorse loro stanziate.
I fondi di coesione non sono soldi europei, bensì nostri. Essi provengono dal bilancio comunitario, ma che a sua volta si alimenta degli stanziamenti nazionali in base al Pil. E l’Italia insieme a stati come Germania e Francia è un contribuente netto, nel senso che versa all’UE più di quanto le venga restituito. Dunque, i 3-4 miliardi che in media ogni anno non riusciamo a spendere, sono soldi nostri che se ne vanno definitivamente all’estero per essere redistribuiti in favori di stati più efficienti e capaci. Che poi diventano competitor e attirano imprese e capitali a discapito nostro.
Su fondi di coesione tabù
L’idea in sé che il riarmo debba avvenire a discapito dei fondi di coesione può attirare molte critiche ragionevoli di chi immagina che lo sviluppo delle economie più deboli venga sacrificato sull’altare della sicurezza militare. Andando a guardare ai fatti e non alle belle parole, scopriamo che l’Italia avrebbe possibilmente da guadagnarci. Se fossimo effettivamente in grado di spendere maggiori risorse europee grazie al riarmo, favoriremmo la nostra industria con investimenti in favore della difesa nazionale. L’alternativa sarebbe fingere che le regioni spendano tutto e in fretta e per progetti che abbiano una qualche valenza utile per l’economia.