I fondi pensione non rappresentano più la soluzione ideale e nemmeno l’unica via per farsi una previdenza integrativa. Lo sanno bene i giovani anche se continuano a metterci in testa che l’unica strada proficua sia quella di destinare il Tfr ai fondi.
Vere e proprie macchine da guerra costruite ad arte della finanza moderna per salvare banche coi bilanci dissestati. Un’architettura congeniata e ben oliata con l’avallo dei governi che, dal canto loro, incoraggiano e creano i presupposti per spostare denaro dal Tfr.
Fondi pensione sicuri? Non proprio
Ma i fondi pensione presentano dei rischi che pochi sanno e che non si vuole che siano portati a conoscenza dei lavoratori. Altrimenti nessuno li sottoscriverebbe, anche a fronte di generosi sconti fiscali che gli Stati sponsorizzano per incrementare le adesioni. Finora la campagna mediatica ci ha raccontato che la previdenza integrativa è la soluzione più sicura per integrare la pensione. Niente di più falso. Come fa notare Beppe Scienza,
“a lungo termine contano solo le garanzie in termini reali, cioè di potere d’acquisto, non previste per fondi pensione. Le offrono invece il Tfr, i titoli di stato e i buoni fruttiferi reali”.
In pratica i fondi pensioni possono portare a perdite anche elevate se i mercati vanno male. Cosa ben evidente nei Paesi anglosassoni dove le pensioni pubbliche sono più basse di quelle in Italia e che per integrarle ci si affida ciecamente ai fondi pensione. In questo senso il recente caso della Gran Bretagna è un esempio lampante che non può essere trascurato.
Il caso della Gran Bretagna
Cosa è successo di preciso? Recentemente la Banca Centrale inglese è dovuta intervenire per sostenere l’industria dei fondi pensione onde evitare un crac finanziario di dimensioni bibliche. Tutto è stato messo a tacere nel giro di pochi giorni, ma l’allarme sta ancora suonando.
In pratica, i fondi pensione inglesi per garantire una rendita dignitosa ai lavoratori in un conteso di tassi di interesse a zero per molti anni, hanno fatto ricorso ai derivati. Cioè, hanno effettuato investimenti e operazioni finanziarie a lungo termine mettendo a garanzia titoli di stato inglesi (Gilt) e i futuri introiti dei lavoratori. In parole povere, hanno usato soldi che non c’erano.
Una pratica abbastanza diffusa in finanza, ma che non ha considerato il repentino rialzo dei tassi d’interesse a causa dell’esplosione violenta dell’inflazione. Così i gestori sono dovuti correre a vendere assets per rientrare dai margini chiedendo altresì soccorso alla Banca d’Inghilterra per sostenere i prezzi dei titoli di stato
Uno costo che pagheranno gli inglesi con più tasse. Ma anche i lavoratori con maggiori contributi e costi di gestione dei fondi pensione. Risultato: perdite consistenti sia in termini di rendimento reale che di rendimento del capitale.
Il rendimento dei fondi pensione
Detto questo, come stanno andando i fondi pensione in Italia? Da gennaio a settembre, oltre 300 fondi aperti, hanno perso mediamente l’11,2% del proprio valore (dati Fida) a causa del crollo delle borse. Un tonfo che equivale a 8 anni di crescita pregressa. In altre parole, chi ha investito soldi nei fondi 8 anni fa oggi si ritrova la stessa somma versata. Sempre che le cose non peggiorino col tempo.
E che dire dei rendimenti? Questi subiranno penalizzanti contrazioni per effetto delle perdite in conto capitale e che i gestori non potranno nascondere al momento dei riscatti. Così oggi si scopre che i Tfr sono meglio dei fondi pensione. In tempi di vacche magre, infatti, il Tfr rappresenta un porto sicuro. Anzi rende anche di più.
Per legge, il Tfr in azienda si apprezza ogni anno del 1,5% fisso, più uno scarto del 75% dell’indice di inflazione Istat.
Giovani poco propensi al rischio
Questo triste quadro influisce anche sulle scelte dei giovani lavoratori, più informati degli anziani anche grazie all’utilizzo dei social network. Così i giovani appaiono meno propensi al rischio rispetto ai lavoratori 50 enni. Ma anche più consci che il Tfr resta un buon salvagente in caso di perdita del lavoro.
Così, in base ai dati elaborati dall’Autorità di Vigilanza alla fine del 2021. Su 8,8 milioni di iscritti ai fondi pensione, solo il 17,8% ha meno di 35 anni. Mentre la maggior parte dei lavoratori (il 50,3%) appartiene alla fascia di età centrale compresa fra i 35 e 54 anni. Il 31,9% ha almeno 55 anni.
Non solo. Dal 2017 al 2021 le adesioni ai fondi pensione fra i giovani lavoratori fino a 35 anni di età hanno registrato una crescita quasi insignificante (+0,4%). Mentre si assistite a un progressivo incremento delle adesioni dei lavoratori appartenenti alle classi di età centrali (+6%).
Per questa ragione l’età media degli iscritti alla previdenza complementare negli ultimi 5 anni è aumentata da 45,9 a 47 anni. I giovani, invece, sembrano non essere interessati o meno coinvolti e forse anche meno preoccupati del loro futuro.