Fuga da Piazza Affari, tra delisting e OPA molte quotate lasciano la borsa

Delisting fenomeno sempre più diffuso a Piazza Affari. Crescono le aziende quotate che lasciano la Borsa di Milano.
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Fuga dalla borsa con il delisting
Fuga dalla borsa con il delisting © Licenza Creative Commons

Piazza Affari. L’anno scorso è stata la migliore per performance dietro solamente al Nasdaq e anche quest’anno viaggia su valori molto positivi, specie se si considera che nel frattempo gli indici francesi ripiegano. Siamo a +14,4% e in 3 anni il rialzo è stato del 30% e del 50% in 5 anni. Ma non va affatto così bene come pensiamo. Quando mancano pochissime sedute alla fine del 2024, abbiamo un saldo decisamente negativo tra IPO e delisting. Le prime sono state 21 e le seconde 27.

Tanti delisting, poca liquidità

Per IPO o Inizial Public Offering s’intende lo sbarco in borsa di una nuova società.

Il delisting è il processo opposto, vale a dire si ha quando una società quotata in borsa decide di ritirarsi dal listino. E quest’anno hanno scelto questa seconda via società del calibro di Saras, Tod’s, UnipolSAI e CNH Industrial. In 17 casi ciò è avvenuto a seguito di una OPA o Offerta Pubblica di Acquisto. E la fuga sta riguardando particolarmente i segmenti MidCap e Small Cap. In pratica, c’è un investitore che compra le azioni a premio per salire fino al 100% del capitale ed effettuare per l’appunto il delisting.

Perché avviene questo se la borsa sale? Fatto salvo che ci possano essere motivazioni differenti di caso in caso, nel complesso possiamo affermare che il principale problema di Milano si chiama liquidità. Pensate solamente a un numero: il rapporto tra prezzi e utili (P/E) è intorno a 10, quando in Francia è sopra 17 e in Germania a quasi 16. E meglio ancora a Wall Street intorno a 27,50. Cosa significa? In Italia le aziende sono valutate pessimamente rispetto alla loro capacità di produrre utili. In sostanza, sono deprezzate rispetto alle concorrenti straniere. E da molti anni a questa parte.

Scarsa fiducia nel sistema Italia

Un basso rapporto P/E è sintomatico della scarsa valutazione sui mercati del sistema Paese.

C’è poca fiducia sulla capacità di crescita e i capitali non arrivano. Questo fenomeno se ne tira dietro un altro: l’elevata probabilità di finire preda di appetiti stranieri. Se non cresci e vali poco, le aziende ben capitalizzate possono scalarti più facilmente e magari comprarti con una ciotola di riso.

Capire le cause dei delisting significa tornare indietro al concetto di quotazione in borsa. Un’azienda non decide di fare parte di un indice azionario per capriccio, bensì per monetizzare almeno parte del valore assegnato dal mercato alla società. E poi è un modo per reperire risorse da investire sempre a beneficio dell’attività e/o per abbattere il debito. Ma quando le quotazioni restano basse o, addirittura, negli anni vanno indietro, i benefici vengono meno. Operazioni come l’aumento del capitale non possono essere varate per raccogliere denaro. Ciò spinge le società a rivolgersi alle banche o ad altri canali tradizionali per investire.

Scarsa contendibilità delle aziende italiane

Se questo è vero, non c’è più motivo di restare in borsa in balia degli umori dei (pochi) investitori interessati. Lo stesso indice FTSE MIB, che è il principale a Piazza Affari e include le prime 30 società per capitalizzazione, è marginale nel mondo. Proprio la sua scarsa inclusione negli indici internazionali lo rendono poco liquido. Non è un caso che molte aziende italiane decidano di quotarsi altrove, potendo così beneficiare dell’abbondanza dei capitali disponibili, nonché di una legislazione di gran lunga più snella, meno onerosa e favorevole al business. C’è anche una ragione più strutturale che rende le aziende italiane poco appetibili all’estero: sono controllate da uno o pochi azionisti stabili (magari i fondatori stessi) senza alcuna possibilità di spodestarne il controllo o anche solo di inciderne sulla governance. E i grandi capitali non comprano titoli sulle cui valutazioni non possono incidere in un qualche modo.

Contro i delisting soluzioni tardive?

Correre ai ripari contro i delisting si può, ma il discorso non è limitato alla sola borsa. E’ il fare impresa in Italia che viene messo in discussione da questi numeri deprimenti, con annessa capacità futura di fare utili. Così come un alto rapporto P/E segnala spesso ottimismo per gli anni a venire, quando è basso riflette un pessimismo di fondo su cosa accadrà. Non è neppure detto che riusciremmo a risollevare le sorti di Milano con tutta la buona volontà di questo mondo. In un mondo globalizzato restare piccoli in questi contesti è deleterio. E chissà che si sia già innescata un definitivo circolo vizioso ai danni della borsa italiana, ai margini della stessa Europa e per questo condannata a posizioni secondarie.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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