Molti di noi resteremmo sorpresi nell’apprendere che sempre più gamberetti consumati sulle nostre tavole arrivino dal Venezuela. Ma anche avocado, formaggio, caramelle e cereali per la colazione. Non si era detto che Caracas stia alla fame? Ebbene, è vero e ciò non toglie che molte delle sue imprese stiano aumentando considerevolmente le esportazioni all’estero di generi alimentari, nonostante gran parte della popolazione viva malnutrita e assuma quotidianamente 1.600 calorie, meno delle 2.000-2.500 minime suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un terzo dei 30 milioni di venezuelani sopravvive solo grazie ai cosiddetti “cesti alimentari” procurati loro dallo stato a costi irrisori.
Iperinflazione in Venezuela, ma il salario minimo 3 dollari al mese
Com’è possibile che il Venezuela aumenti le esportazioni di generi alimentari, se al contempo patisce la fame? Il fatto è che il regime “chavista” di Nicolas Maduro ha bisogno di valuta straniera per sopravvivere alle sanzioni USA di Donald Trump. Esse proibiscono alle società americane di fare affari con il governo di Caracas e ogni altra entità statale del paese. Il settore privato, invece, non è oggetto dell’embargo, che si applica al petrolio della compagnia statale PDVSA, nei fatti ad oggi unico bene esportato.
Da qui, la disperata volontà dei “chavisti” di introitare più dollari, euro, yen, sterline, etc., consentendo alle imprese domestiche di vendere all’estero. Sotto Hugo Chavez prima e Maduro dopo, le esportazioni sono state sostanzialmente bandite, perlopiù per le negate autorizzazioni, spesso volutamente rinviate nel tempo anche di anni. Adesso, indietro tutta, almeno a parole. Le autorizzazioni vengono rilasciate più celermente e in misura maggiore che in passato, per cui nel primo trimestre di quest’anno, le esportazioni del settore privato risultano essere aumentate del 26%, a fronte di un pil in crollo del 27% su base annua.
Venezuela punta sulle esportazioni, ma l’ideologia marxista resta
Per contrastare l’iperinflazione, poi, da mesi sono stati ampiamente eliminati i prezzi amministrati, che insieme ai vincoli stringenti alla produzione sono stati la causa degli scaffali vuoti prima e dell’esplosione dei prezzi subito dopo, nonché del mancato import-export.
Ma nella pratica, il regime resta ancorato all’ideologia marxista, tant’è che le stesse imprese lamentano che il governo ha aumentato le tasse sui beni esportati e i porti hanno elevato le loro. Dunque, la strategia di questa fase non sarebbe volta realmente a diversificare la produzione, quanto a fare cassa con la vendita di beni all’estero per aggirare le sanzioni americane. Negli anni recenti, il petrolio ha rappresentato il 96% del valore delle esportazioni venezuelane, le cui estrazioni sono precipitate ormai a una media mensile di poco superiore ai 500.000 barili al giorno, giù da 1,5 milioni di inizio anno e dai quasi 3 milioni di 5 anni fa. E solo una parte minima di questo greggio finisce all’estero, una volta detratta la pur minima domanda energetica interna da soddisfare e la quota destinata a rimborsare i crediti di Cina e Russia, nonché le spedizioni sussidiate ai membri di Petrocaribe, tra cui Cuba.
Per i venezuelani in carne e ossa – più ossa che carne, ahi noi! – quanto accade potrebbe non necessariamente costituire una notizia positiva, qualora la già scarsa produzione domestica fosse in misura crescente “deviata” all’estero per incassare valuta pregiata, anziché bolivares destinati a svalutarsi qualche minuto dopo. E non saranno, comunque, le esportazioni alimentari a salvare Caracas dalla crisi, trattandosi di noccioline in valore, solamente 81 milioni di dollari nell’intero 2018.
La crisi del Venezuela trascina nel dramma solo Cuba: cibo razionato, scaffali vuoti