Giappone meglio messo nel mondo sui dazi, ecco il suo potere di ricatto verso Trump

Il Giappone sui dazi ha un potere negoziale superiore a chiunque altro nel mondo e potrà spingere Trump a rivedere i suoi annunci.
6 giorni fa
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Sui dazi Giappone può trattare da posizione di forza
Sui dazi Giappone può trattare da posizione di forza © Licenza Creative Commons

Nella lista dei dazi c’è finito anche il Giappone e con un’aliquota superiore a quella fissata dal presidente Donald Trump per l’Unione Europea. Gli esportatori nipponici dovranno pagare una tariffa del 24% contro il 20% a noi riservato. Il premier Shigeru Ishiba, che aveva incontrato il tycoon alla Casa Bianca all’inizio del mese, ha dichiarato l’annuncio “una crisi nazionale”. Gli economisti stimano che il Pil del Sol Levante può ridursi dello 0,59% in un anno nel caso di dazi reciproci.

Tokyo nel mirino USA anche con Reagan

Il Giappone fu minacciato dei dazi anche negli anni Ottanta di Ronald Reagan, che non fu contento di assistere all’invasione di auto sul mercato americano. Alla fine, Tokyo si decise ad auto-limitare le esportazioni ed evitò misure punitive da parte di Washington. E nel 1985 l’Accordo di Plaza svalutò il dollaro contro le principali valute mondiali.

Avrebbe perso la metà del suo valore contro lo yen nei tre anni successivi.

Sui dazi il Giappone ha un qualche potere negoziale in questa fase? La risposta non è soltanto affermativa, di più: Tokyo è forse ad oggi l’unico alleato degli USA che potrà presentarsi senza remore a trattare con Trump e finanche minacciarlo in maniera credibile. Vi ricordate cos’è accaduto agli inizi di agosto dello scorso anno? La Borsa di Tokyo crollò del 12,4% in una sola seduta, apparentemente senza alcuna ragione scatenante. La crisi per fortuna rientrò immediatamente. A cosa fu dovuto il crash? Gli analisti osservarono che fosse la chiusura contestuale di numerose operazioni legate al carry trade.

Bolla azionaria a Wall Street

Con questa espressione intendiamo quando un investitore prende a prestito il capitale dove i tassi sono bassi e lo investe dove i tassi sono alti.

Grazie a questo gioco, riesce a lucrare. E il Giappone tiene i tassi a livelli bassissimi: un anno fa li alzava dal -0,10% e ancora oggi sono allo 0,50%. Ma negli USA erano saliti al 5,50% e ancora oggi sono al 4,50%. Nell’Eurozona erano al 4% (sui depositi bancari) e oggi sono fissati al 2,50%. Tuttavia, l’inflazione sopra il target costrinse la Banca del Giappone a varare la stretta nel 2024. E così, lo yen si riprendeva contro il dollaro, arrivando a segnare un +14,5% in poco più di due mesi tra luglio e settembre. Nel mezzo di questo recupero c’era stato non a caso il crollo azionario.

In effetti, cos’è accaduto per molti anni? Impossibilitati ad investire in patria a tassi negativi o azzerati, i giapponesi hanno portato i loro capitali all’estero. Dove? Presso la borsa americana, alimentando la bolla finanziaria della Big Tech. E il gioco ha reso parecchio fintantoché i tassi nipponici fossero bassi, i tassi americani alti e il dollaro restava forte contro lo yen. Ma ultimamente sta accadendo il contrario: i tassi salgono in Giappone, scendono negli USA e il dollaro s’indebolisce contro lo yen. Il carry trade non rende come prima e rischia, anzi, di provocare perdite. Ecco perché gli indici azionari a Wall Street ripiegano da un po’ di settimane.

Non ci sono solo i dazi di Trump ad impensierire, ma anche il Giappone con la sua politica monetaria controcorrente.

Sui dazi Giappone può minacciare Trump

Trump non può permettersi il collasso della Big Tech. Già la sola Apple dai massimi di febbraio cede circa 660 miliardi di dollari di capitalizzazione, Amazon intorno a 675 e Microsoft più di 550. Un bagno di sangue, per certi versi anche salutare, viste le quotazioni stellari degli ultimi tempi. Ma Ishiba potrà presentarsi a Trump, dicendogli chiaro e tondo che se alza i dazi, lui farà altrettanto con i tassi. Lo yen guadagna già l’8% contro il dollaro, ma se solo tornasse ai livelli pre-Covid, salirebbe di un altro 25%. Una prospettiva che si farebbe concreta con la banca centrale a mollare ogni remora sulla stretta. Ancor prima di alzare i tassi, potrebbe semplicemente lasciare salire i rendimenti sovrani. Ufficialmente non possono superare l’1% sul tratto decennale, anche se di recente sono saliti fino all’1,55% e venerdì si attestavano all’1,20%. Sarebbe un primo segnale teso a intimorire Washington.

A quel punto, Wall Street andrebbe nel panico. In fumo ci sarebbero migliaia di miliardi di capitalizzazione, flussi di denaro che se ne tornerebbero in Giappone, dove il denaro finalmente sarebbe tornato conveniente da investire. Non che il Giappone possa allegramente alzare i tassi dalla mattina alla sera con un debito pubblico sopra il 250% del Pil. Ma la minaccia di stringere i denti un po’ per fare soffrire l’alleato birichino sarebbe credibile. E senza contare che Tokyo è primo detentore dei titoli del debito americano: quasi 1.080 miliardi di dollari a gennaio, il 12,65% dell’intero stock in mani straniere.

giuseppe.timpone@investireoggi.it 

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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