L’Italia non è un paese per giovani. Non serviva certo una segnalazione dell’OCSE per capirlo. La gerontocrazia è forse uno dei nostri mali principali. Domenica scorsa, in Austria ha vinto le elezioni un ragazzotto di 31 anni, classe 1986, che si appresta a diventare cancelliere. Certo, un caso estremo anche per il resto del mondo, ma a Roma candidarsi a certe cariche sotto i 50 anni strappa più di un sorriso. Il presidente Francesco Cossiga era solito definire “giovanotto” chiunque fosse al di sotto dei 50 anni e passa.
Se è già oggi difficile sostenere il sistema previdenziale, immaginate quanto lo sarà con il crollo della popolazione in età lavorativa, rispetto a quella in quiescenza. E non è finita qui, perché l’organizzazione con sede a Parigi ci dice anche che dal 2000 al 2016, l’occupazione per i lavoratori tra 55 e 64 anni è aumentata del 23%, per quelli tra 25 e 54 anni è salita di appena l’1%, crollando dell’11% tra i 18 e i 24 anni. E dalla metà degli anni Ottanta, il reddito dei sessantenni (60-64 anni) è aumentato del 25% in più di quello dei trentenni. Infine, le diseguaglianze di reddito tra i nati dopo il 1980 (cosiddetti “millenials”) risultano superiori a quelle delle precedenti generazioni.
Questi dati dovrebbero farci scattare dalla sedia, perché preannunciano l’assenza di un futuro per l’Italia: saremmo destinati ad essere un popolo di anziani, con pochi lavoratori e tanti pensionati e con vistose diseguaglianze crescenti negli anni, che rischiano di culminare nell’età della pensione.
Il rischio di una vecchiaia da inferno
Chi abbia goduto nell’arco della propria carriera lavorativa di stipendi superiori alla media e magari di una continuità contributiva, avrebbe la possibilità di andare in pensione anche prima dell’età anagrafica richiesta (nel caso restasse in piedi l’istituto della pensione anticipata), godrebbe di un assegno Inps più ricco e potenzialmente anche di una pensione integrativa. Viceversa, quanti abbiano avuto carriere discontinue e bassi stipendi, si ritroverebbero ad andare in pensione più tardi, con assegni inferiori e verosimilmente senza alcuna integrazione privata. In pratica, le disuguaglianze in era lavorativa sarebbero ulteriormente amplificate nella vecchiaia, che si trasformerebbe per molti giovani di oggi in un inferno. (Leggi anche: Sistema pensionistico fallito in Italia, cosa ci insegna il modello cileno)
Per non parlare dell’impatto negativo che un invecchiamento demografico così drammatico avrebbe sull’economia: scarsa produttività, crescita ancora più bassa e ridotto grado di innovazione. A sua volta, tutto ciò incrementerebbe i problemi dell’Inps, perché se già i contributi previdenziali versati saranno pochi per il ridotto numero di lavoratori, essi tenderanno a rimanere stagnanti, in conseguenza della bassa crescita salariale, con effetti depressivi anche sulle pensioni di anno in anno erogate. Insomma, andiamo incontro a un futuro davvero da incubo e ammesso che avessimo già una soluzione in tasca, dovremmo iniziarla ad attuare sin da ora, perché il 2050 non è poi così lontano. Per allora, i nati di oggi avranno solo 33 anni e chissà se avranno iniziato a lavorare stabilmente, mentre la classe 1980 avrà esattamente 70 anni e reclamerà la pensione.