Il Prof Giuseppe Conte è stato convocato dal presidente Sergio Mattarella al Quirinale per le ore 17.30 di stasera, evidentemente al fine di ricevere l’incarico come premier. Il capo dello stato aveva chiesto stamattina a Luigi Di Maio e Matteo Salvini di confermare il loro nome per Palazzo Chigi a nome di Movimento 5 Stelle e Lega, accertandosi che i due leader non avessero cambiato idea. Dunque, il governo giallo-verde sta per diventare realtà. Poche ore e si parte davvero. Inutile dire che c’è molta preoccupazione sui mercati finanziari e in Europa per la linea politica che esso metterà in atto, specie sul piano delle misure fiscali e dei rapporti con la UE.
In attesa di conoscere chi sarà il prossimo ministro dell’Economia, non possiamo non mettere in conto un deterioramento molto probabile nelle relazioni tra Italia e Commissione europea, nonché con le cancellerie di Berlino e Parigi, asse portante dell’Eurozona. Cerchiamo di immaginare un attimo cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi con una Roma in mano agli euro-scettici.
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Verso uno scontro con la UE
Al vertice di Bruxelles di giugno, l’Italia dovrà presentarsi con una posizione sul tema delle riforme dell’Eurozona, con la Francia a proporre l’istituzione di un bilancio comune e di un ministro unico delle Finanze, avversate dalla Germania, la quale teme che l’euro diventi un’unione di debiti. Con un governo italiano penta-leghista, però, il dibattito sembra nascere morto. Roma non farà asse né con Parigi, né con Berlino e ciò rafforzerà i dubbi tedeschi sull’opportunità di una maggiore integrazione politica nell’area, quando la terza economia segnala vistosamente di non volere condividere nemmeno gli obblighi attuali.
La vera battaglia tra Roma e Bruxelles, però, riguarda le politiche fiscali. Oggi, la Commissione ha fatto sapere che per l’anno prossimo servirebbe una manovra correttiva dei conti pubblici per 10 miliardi di euro, pari allo 0,6% del pil. Saranno proprio questi i temi caldi del confronto, che si preannuncia accesissimo. Da una parte, un’economia sovra-indebitata nel pubblico come l’Italia, alle prese con alta disoccupazione e crescita economica strutturalmente bassa, che chiede margini di manovra fiscali per realizzare investimenti e attuare parte delle promesse elettorali di natura espansiva (flat tax, reddito di cittadinanza, abolizione della legge Fornero, etc.). Dall’altra, una Bruxelles che non può permettersi di apparire lassista, altrimenti avallerebbe simili richieste da parte delle altre capitali, indebolendo il rispetto delle regole. E, soprattutto, non può accondiscendere a politiche di deficit spending per un’economia già colma di debiti, rischiando di alimentare una spirale negativa dei conti pubblici nazionali, che contagerebbe il resto dell’area, colpendo le tasche dei contribuenti tedeschi, francesi, finlandesi, olandesi, etc.
Dalla sua, l’Italia ha un potere di ricatto elevato, ovvero la minaccia di indire un referendum sull’euro. Credibile? Non tanto, anche perché gli italiani finirebbero, oggi come oggi, di bocciare la richiesta di tornare alla lira, ma il solo fatto che in uno stato fondatore della UE se ne parli sarebbe un vulnus inaccettabile per i commissari. Verrebbe meno la credibilità della natura irrevocabile dell’euro. Non solo. Se Bruxelles tirasse troppo la corda, Lega e 5 Stelle potrebbero decidere di rimettersi alla volontà popolare, andando ad elezioni anticipate. In un clima di rissa con le istituzioni comunitarie, il loro consenso forse lieviterebbe e la UE si ritroverebbe un governo ancora più euro-scettico del precedente.
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Un possibile accordo tra Roma e Bruxelles
Anche la Commissione ha le sue carte da giocare. L’Italia senza il sostegno del QE della BCE resta in balia degli umori dei mercati, come segnala il ritorno dell’allarme spread di questi giorni. Senza un accordo di principio sulle politiche fiscali, rischia di pagare più interessi sul debito e di possedere minori e non maggiori margini di manovra sui conti pubblici. E l’isolamento europeo che ci verrebbe eretto attorno non agevolerebbe l’ottenimento di alcun successo con riguardo anche ai capitoli sulla gestione dei migranti e del bilancio comunitario. Il governo giallo-verde non sarebbe in grado di mostrare risultati ai propri elettori. E, tuttavia, l’Italia non è la Grecia e contro Roma non potrà usarsi la stessa tecnica del 2015 impiegata per isolare Atene. Siamo la terza economia dell’area, contiamo per oltre il 15% del pil complessivo e una eventuale Italexit equivarrebbe a una disintegrazione dell’euro.
E allora, che si fa? L’unico accordo possibile sarebbe un compromesso sui target fiscali: più gradualità nel tendere al pareggio di bilancio, in cambio di riforme strutturali. Nell’ipotesi migliore, all’Italia i commissari consentirebbero disavanzi fino al 3% del pil, liberando rispetto agli obiettivi concordati per l’anno in corso risorse per 23-24 miliardi di euro. Non sarebbero in grado di finanziare la lunga e costosa lista della spesa e il mega-taglio delle tasse di Lega e 5 Stelle, ma servirebbero come boccata di ossigeno per la nostra economia, anche se non sarebbe un pasto gratis. In cambio, la maggioranza dovrebbe impegnarsi a realizzare misure di riduzione della spesa pubblica con un piano pluriennale, dovrebbe almeno non disfare le riforme già attuate nella scorsa legislatura e offrire rassicurazioni anche sul capitolo pensioni, nonché presentare un piano credibile di abbattimento del rapporto debito/pil, anche attraverso le privatizzazioni e la rinuncia a chiedere la revisione dei trattati e a fare asse con Trump e Putin sulle questioni chiave.
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