Nulla di fatto dopo il primo giro di consultazioni al Quirinale. Il capo dello stato, Sergio Mattarella, ha dovuto prendere atto dell’assenza di una maggioranza parlamentare. Certo, era nell’aria da settimane e si poteva pure evitare la sceneggiata inconcludente della salita al Colle, che in tempi di disgusto verso i riti stanchi della politica tradizionale e stantia non avrà avvicinato gli italiani alle istituzioni. Servirà qualche giorno di riflessione in più per il presidente, ma salvo sorprese, centro-destra e Movimento 5 Stelle saranno condannati a governare insieme.
Stando così le cose, serve adesso solo trovare un nome che metta d’accordo i due principali azionisti della nuova maggioranza parlamentare che sta per nascere: Matteo Salvini e, appunto, Di Maio. Escludendo che l’uno possa sostenere l’altro come premier per strategia politica e, perché no, personalismi sempre presenti in politica, l’accordo dovrà essere su una figura terza. Diversi i nomi che circolano in questi giorni, ma uno impressiona più degli altri, perché sarebbe una vecchia conoscenza degli italiani: Giulio Tremonti.
L’ex ministro dell’Economia dei governi Berlusconi non è stato nemmeno candidato con il centro-destra alle ultime elezioni, scontando le antipatie del suo ex premier, quando per 15 anni ne è stato braccio destro, pilastro di una maggioranza che si reggeva sull’accordo tra Forza Italia e la Lega Nord di Umberto Bossi, che con la china salviniana nazional-euroscettica ha poco a che spartire. Caduto in disgrazia con la crisi dello spread del 2011, Tremonti è stato accusato dagli ambienti berlusconiani di avere ordito una sorte di “golpe” contro l’allora premier, screditandolo presso le cancellerie europee con la pubblicazione di una lettera della BCE dell’estate 2011, sottoscritta pure dal futuro governatore Mario Draghi, con la quale si chiedevano al governo italiano decine di riforme per fare ripartire l’economia e mettere in sicurezza i conti pubblici.
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L’euro-scetticismo di Tremonti
Tremonti si oppose proprio a quelle riforme e il governo rimase vittima di un’impennata dei rendimenti sovrani, che da lì a poco avrebbe messo KO Silvio Berlusconi, privandolo di sostegno internazionale e di una maggioranza autonoma in Parlamento. Non sappiamo quale reale ruolo ebbe in questa vicenda Tremonti, personaggio dal carattere sempre ostico, ispido, poco incline ai compromessi e certamente mai morbido. Da titolare del Tesoro, si fece una fama di tutore dei conti pubblici da un lato (egli spiega che lo spread schizzò quando Berlusconi pretese di avere più voce in capitolo nella gestione delle finanze, dopo la sconfitta del PDL alle amministrative della primavera del 2011, tra cui nella sua Milano), ma anche di scarso riformatore. Nessuna liberalizzazione, niente privatizzazioni e tagli delle tasse con Tremonti ministro dell’Economia. Di fatto, potrebbe essere stato la rovina politica del centro-destra berlusconiano, che in circa 9 anni di governi dal 1994 al 2011 non fu in grado di attuare la benché minima parte delle promesse “liberali” con cui si era presentato agli elettori, sancendo la nascita della Seconda Repubblica.
Perché Tremonti l’ex “bossiano” azzurro dovrebbe mettere insieme Salvini e Di Maio? Dopo il 2011, libero dagli impegni politici e istituzionali di primo piano, l’ex ministro si è fatto una fama di euro-scettico, sparando a zero contro la UE e l’euro, sostenendo che contro l’Italia sarebbe stato ordito un complotto nel 2011, finalizzato a commissariare il nostro governo, mandando a Palazzo Chigi un uomo di fiducia della Troika, ossia Mario Monti.
Non solo. Per quanto la sua eventuale nomina a premier farebbe drizzare i capelli ai commissari europei, egli non è sconosciuto alle cancellerie internazionali e ai mercati. Se da un lato grava su di lui la macchia del 2011, dall’altro nessuno potrebbe accusarlo di essere una “testa calda”, uno sprovveduto o un ignorante in tema di governo. Certo, addio riforme e che abbiano inizio le diatribe dialettiche con la Germania di Angela Merkel su euro, Patto di stabilità e politiche commerciali (Tremonti sostiene prima di Trump la necessità di imporre dazi alla Cina), ma dopo i risultati eclatanti delle ultime elezioni è lo scenario minimo scontato da Europa e mercati. Nessuno s’immagina che il prossimo premier italiano sia un fervente sostenitore della moneta unica e delle politiche di austerità fiscale. E allora, chissà che già in queste ore nei corridoi del Quirinale non si stia facendo davvero largo il nome di Tremonti per prendere le redini di una maggioranza, che altrimenti resterebbe priva di convergenze sul nome del premier.
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La minaccia Cairo per Berlusconi e il nuovo corso sovranista
E Berlusconi? Sarebbe costretto a digerire Tremonti, anche perché le alternative per lui sarebbero peggiori. Quello dell’ex ministro non è, infatti, l’unico nome credibile che circola per Palazzo Chigi. Inizia a farsi strada persino un’ipotesi apparentemente inverosimile, ma riflettendoci non tanto: Urbano Cairo. Patron del Torino calcio, di La 7 e Gruppo Rcs, che edita tra l’altro il Corriere della Sera, non sono in pochi ad avere notato come sotto la sua proprietà, i media controllati abbiano adottato una linea filo-grillina o, comunque, meno ingessata e istituzionale di un tempo, come nel caso del Corriere.
Già manager di Fininvest negli anni Novanta, quando qualche anno fa comprò La 7, si speculò che fosse ancora troppo vicino all’ex premier. I fatti hanno dimostrato che non era così. Anzi, Cairo a Berlusconi spiacerebbe come premier, visto che i due avrebbero interessi aziendali divergenti. Il primo punterebbe a una piena liberalizzazione del sistema televisivo nazionale, cosa che avverrebbe, come vi abbiamo segnalato ieri in un nostro articolo, privatizzando parzialmente la Rai, costringendo la TV pubblica a cedere qualche rete. In quel caso, persino a Mediaset potrebbe essere imposto lo stesso dall’Antitrust, visto che la già posizione dominante del Biscione diverrebbe ancora più strabordante con un Viale Mazzini ridimensionato. E che dire della possibilità che un governo Cairo, appoggiato da grillini e leghisti, si spinga fino a porre un tetto alla pubblicità, tale da colpire Mediaset e favorire gli interessi del torinese?
Per questo, Tremonti potrebbe apparire a Berlusconi il male minore. Oltre tutto, le diatribe tra i due riguardano il passato e non divergenze di interessi attuali. E l’ex premier non è più nelle condizioni di dettare legge nel centro-destra. Non solo ne ha perso la leadership, egli non appare più in sintonia con i propri stessi elettori e dentro Forza Italia godrebbe di un sostegno affatto plebiscitario, con decine di parlamentari pronti a fare il salto nella Lega, dove guarderebbero con maggiore serenità al loro futuro politico. Insomma, al governo tornerebbe Tremonti, ma dal portone principale di Palazzo Chigi e in una fase congeniale per un “colbertiano” come lui, tra dossier Alitalia e TIM sulla scrivania e con una Cdp a svolgere il ruolo di una Iri 2.0, braccio finanziario del Tesoro nel panorama industriale nazionale. Un sogno per uno come Tremonti, che non ha mai creduto al libero mercato in senso pregnante e che finalmente si troverebbe ad avere mani libere per mettere in atto la sua strategia interventista in economia, plasmando quel capitalismo di stato che gli è sempre piaciuto tanto e che risulterebbe funzionale anche al nuovo corso “sovranista” di Salvini e Di Maio.
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