La Cina ha scelto di perseguire l’approccio “tit for tat” con gli Stati Uniti di Donald Trump sui dazi. Tradotto: renderà pan per focaccia, replicherà colpo su colpo “fino alla fine” per usare le parole del Ministero del Commercio. Dopo avere reagito con un contro-dazio al 34%, sul suo social Truth il presidente americano ha prospettato un ulteriore incremento della tariffa del 50%. E nella seduta di questo martedì da Pechino è arrivato un messaggio in codice per la Casa Bianca, ossia l’uso dell’opzione nucleare: la svalutazione dello yuan.
Cambio più debole contro dollaro
Il “reference rate” contro il dollaro è stato fissato a 7,2038, il livello più debole dal settembre 2023.
Ogni giorno la Banca Popolare Cinese fissa un tasso di riferimento attorno al quale il cambio sul mercato potrà muoversi del 2% in alto e in basso. Gli analisti guardano con attenzione a questi movimenti per capire se la Cina abbia intenzione di procedere con la svalutazione dello yuan. Essa consentirebbe alle imprese domestiche di assorbire almeno in parte i dazi americani. Un cambio più debole tende, infatti, a compensare l’incremento dei prezzi in dollari per i consumatori americani.
Tuttavia, l’idea che Pechino lasci indebolire velocemente e in misura evidente il cambio non è per il momento contemplata. Anzitutto, perché provocherebbe il deflusso dei capitali dalla Cina e impatterebbe negativamente sui consumatori cinesi. C’è da dire, però, che a febbraio l’inflazione nell’economia asiatica è stata negativa dello 0,7% annuale. A differenza di altre aree del pianeta, in questa fase i cinesi possono permettersi un aumento dei prezzi, pur contenuto. Certo, non è così che le autorità immaginano di reflazionare l’economia.
Terremoto finanziario, conseguenze su materie prime
La svalutazione dello yuan non è la prima opzione del governo, perché esso punta a rendere la valuta un riferimento regionale. Proprio in tempi di turbolenze finanziarie sarebbe opportuno dare l’idea che lo yuan sia un asset credibile e stabile per l’Asia. D’altra parte, il pizzino spedito nelle scorse ore a Trump sembra chiaro: “se vai avanti con i dazi, noi reagiamo con la svalutazione dello yuan”. Sarebbe un terremoto finanziario. Un cambio cinese debole colpirebbe le quotazioni delle materie prime, essendo la Cina tra l’altro la principale importatrice di petrolio.
Un eventuale collasso del greggio farebbe male al comparto “oil & gas” americano, che Trump ha promesso di sostenere sin dal suo insediamento. Il “drill baby drill” andrebbe a farsi benedire con quotazioni in picchiata, perché le compagnie USA non avrebbero convenienza ad estrarre ulteriori barili. E Goldman Sachs ha stimato un crollo a 40 dollari nel caso di tensioni commerciali estreme. La svalutazione dello yuan rientrerebbe in un simile scenario. Sposterebbe la “guerra” da commerciale a valutaria, che poi è sempre andata così nella storia.
Svalutazione yuan colpirebbe Europa
E sarebbe proprio l’Europa a doversi preoccupare. Se la Cina reagisse così agli USA, le vere vittime saremmo noi. Non avendo (finora) imposto i dazi sulle merci cinesi, con una svalutazione dello yuan queste diverrebbero ancora più a buon mercato e finirebbero per travolgere la produzione continentale. Ed ecco arrivati al cuore del problema: in una guerra dei dazi tra superpotenze non è possibile restare inerti. Si finisce prima o poi per subirne le conseguenze senza aver fatto nulla per provocarle. Anche per non urtare Bruxelles in fase pre-negoziale con Washington per adesso Pechino si riserva di usare quest’arma più in là.
giuseppe.timpone@investireoggi.it