Cosa hanno in comune un messicano e un islandese? Ben poco. Uno vive in uno stato caldo, l’altro in uno freddo. Anche i dati OCSE confermano che i due avrebbero poco da spartire. I lavoratori messicani sono primi per numero di ore medie a settimana della classifica relativa a ben 35 paesi. Questa è probabile che non ve l’aspettavate. Siamo sempre abituati a pensare che a lavorare di più siano i lavoratori residenti nelle economie ricche. Invece, è l’opposto. Infatti, gli islandesi sono ultimi per ore lavorate.
Concetto di produttività del lavoro
In media, un messicano lavora 42,81 ore per guadagnare 320,87 dollari alla settimana. Si trova ultimo in classifica sotto il profilo retributivo. Invece, un islandese lavora solo 27,87 ore e guadagna 1.528,33 dollari alla settimana. Si trova al primo posto con riferimento alla retribuzione media oraria di 54,84 dollari contro i 7,49 dei colleghi messicani. In pratica, chi meno lavora, più guadagna? Torniamo al concetto di produttività.
Immaginiamo che ci siano due lavoratori in una fabbrica di lavatrici e che per ipotesi assurda questi siano tuttofare. Il primo riesce a produrre una sola lavatrice al giorno, il secondo dieci. Cosa succede agli stipendi dei due? Il secondo può arrivare a guadagnare dieci volte il primo. Solo che non vuole trascorrere al lavoro tutta la giornata e si limita a svolgere sei ore al giorno contro le otto del collega. In pratica, guadagnerà molto più e lavorerà di meno. Egli risulta essere, infatti, più produttivo.
Italia male nella classifica OCSE
L’Italia in questa classifica dell’OCSE non sta messa bene. Figura al 21-esimo posto con la media di 32,59 ore a settimana, ciascuna delle quali retribuite a 26,49 dollari. Di fatto, lavoriamo circa 3 ore e mezza in più dei francesi e quasi 7 in più dei tedeschi.
Salario minimo falsa soluzione a vero problema
Poiché siamo soliti osservare i problemi dal buco della serratura, da mesi stiamo dilaniandoci attorno alla proposta di introdurre il salario minimo legale. I suoi fautori sostengono che ciò affronterebbe il tema del lavoro povero. In effetti, sembra incredibile che vi siano molti italiani che sgobbano tanto e guadagnano così poco da non riuscire a sopravvivere. Ma magari bastasse una legge per migliorarne le condizioni retributive! Il problema è che il lavoro povero deriva dalla scarsa produttività, che a sua volta è figlia di tante cause: piccole dimensioni aziendali, sotto-investimenti, burocrazia onerosa e oppressiva, alta pressione fiscale e contributiva, infrastrutture carenti e specializzazioni produttive in comparti esposti alla concorrenza delle economie emergenti.
Per capirci, come faccio a competere con un lavoratore cinese o vietnamita o del Laos, se questi lavoreranno molto di più per guadagnare molto di meno e in assenza di qualsiasi forma di tutela? Il valore della mia produzione sarà sempre basso, perché i prezzi a cui l’impresa riuscirà a vendere saranno compressi ai minimi termini. La mia produttività risulterà carente, sebbene continui ad ammazzarmi di lavoro. Altra cosa è, invece, se il mio competitor è un lavoratore tedesco, finlandese o americano. I prezzi di riferimento saranno molto più alti e ciò accrescerà il valore della mia produzione. Mi potrebbe bastare lavorare di meno per guadagnare uno stipendio decoroso.
Bassa produttività deprime stipendi italiani
Passare da produzioni povere a produzioni ricche, tuttavia, non sempre è possibile. Da un lato occorrono imprenditori disposti ad investirvi – e i capitali necessari sono spesso significativamente più elevati di quelli che basterebbero per avviare produzioni a scarso contenuto tecnologico o know-how – dall’altro è indispensabile un’abbondante manodopera qualificata.
Concludendo, possiamo affermare che i dati OCSE evidenziano una realtà amara anche per i lavoratori italiani. All’estero siamo additati non raramente come un popolo poco incline al lavoro, quando trascorriamo in ufficio, cantiere, negozio o magazzino molte più ore dei nostri colleghi nordeuropei. Se guadagniamo meno, non è perché siamo capaci di produrre poco, bensì per un insieme di cause che finisce per deprimere il valore della nostra produzione e, quindi, anche i nostri salari.