L’Unione Europea ha dato l’ok al piano di Monte Paschi di Siena (MPS) per liberarsi del fardello dei suoi crediti deteriorati, ammontanti a 11,6 miliardi di euro lordi al 31 marzo scorso, pari a 5,8 miliardi netti. L’escamotage sarà di cedere qualcosa come 9-10 miliardi di cosiddetti NPL ad Amco, una società di recupero crediti controllata dal Tesoro, il quale è al contempo anche primo azionista di gran lunga dell’istituto con il 68% del capitale detenuto sin dalla nazionalizzazione nel 2017.
Lo stato dovrebbe uscire dal capitale entro il 2021 e sembrerebbe che di proroghe sui tempi la Commissione all’Italia non ne consentirebbe ulteriormente.
Voragine MPS, come lo stato farà pagare agli italiani costi più salati delle attese
Oggi, in borsa MPS vale circa 1,5 miliardi, per cui la quota in mano allo stato sarebbe di appena 1 miliardo. Attualmente, quindi, la perdita virtuale per i contribuenti italiani ammonterebbe a 5,9 miliardi, tanta è la differenza tra quanto speso e quanto oggi s’incasserebbe rivendendo la quota di controllo sul mercato. Ma i problemi non sono finiti, perché MPS ha a bilancio i suoi NPL a oltre il 50% del loro valore nominale. A questo punto, ha dinnanzi a sé due soluzioni: vendere i 9-10 miliardi ad Amco al loro valore di bilancio per non accusare ulteriori perdite o accontentarsi di un prezzo medio in linea con le valutazioni del mercato, che prima dell’emergenza Coronavirus si attestavano all’incirca al 30%.
Contribuenti fregati in ogni caso
Primo scenario: Amco rileva 10 miliardi lordi di NPL da MPS per il loro valore di iscrizione a bilancio, cioè pagandoli per oltre 5 miliardi.
Dunque, se Amco non riuscisse a rivendere gli NPL ai prezzi di acquisto registrerebbe una perdita per la differenza. Ed essendo una società pubblica, essa ricadrebbe sui contribuenti. Nello scenario due, avremmo che MPS cede gli NPL ad Amco ai presunti prezzi di mercato. Apparentemente, nessuna perdita per i contribuenti, ma non è così. La banca accuserebbe minusvalenze per la differenza tra il prezzo di carico e quello di vendita e il suo valore in borsa scenderebbe, riducendo l’incasso per lo stato all’atto della cessione della quota. Non solo, ma con ogni probabilità la perdita miliardaria dell’istituto costringerebbe a un’ennesima ricapitalizzazione, cioè gli azionisti, con lo stato per primo, dovrebbe ripianare il “buco” rimettendo mano al portafogli. E per questa via, i contribuenti continuerebbero a pagare per una banca, che si sta rivelando l’Alitalia del credito. Un infinito salasso per i conti pubblici.
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