Tra la fine di agosto e gli inizi di settembre, nel mondo esistevano 17.000 miliardi di dollari di obbligazioni con rendimenti negativi. La massa è scesa ad oggi intorno ai 12.000 miliardi. Il fenomeno è inedito, riguarda gli ultimi anni e viene legato perlopiù all’imposizione di tassi negativi da parte delle principali banche centrali. Non a caso, si mostra quasi inesistente negli USA, dove la Federal Reserve tiene i tassi su livelli decisamente positivi, mentre è esploso in Europa e in Giappone, le aree in cui l’accomodamento monetario è diventato più estremo.
Per capire i tassi negativi, bisogna premettere cosa siano i tassi d’interesse. Essi equivalgono alla remunerazione spettante al risparmiatore per il denaro prestato a un debitore. Per quest’ultimo, invece, rappresenterà un costo. Il tasso d’interesse determina l’incontro tra domanda e offerta dei capitali sul mercato. Le imprese, tipicamente unità economiche in deficit, prendono a prestito quando l’interesse da pagare risulta inferiore al profitto atteso dall’investimento dei capitali. Viceversa, il risparmiatore presta denaro quando l’interesse che gli viene corrisposto diventa appetibile, magari supera il tasso d’inflazione e, quindi, gli consente di guadagnare in termini reali.
I tassi negativi implicano un sovvertimento della realtà: chi presta denaro paga chi lo riceve! Com’è possibile che accada? La risposta che ci siamo dati – e grosso modo, giustamente – in questi anni è che esista un eccesso di liquidità iniettata sui mercati dalle banche centrali, che gonfiando i prezzi degli assets ha finito per deprimere oltremisura i rendimenti dei bond. E se ci fossero ragioni più strutturali? Le società avanzate sono caratterizzate da un invecchiamento demografico costante, redditi medi elevati e scarse nascite.
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Le cause dei tassi negativi
Una società che invecchia tende a consumare di meno (ad esempio: un anziano viaggia poco, vive più frugalmente), per cui risparmia di più. L’eccesso di risparmio, unitamente alla scarsa propensione all’investimento, deprime i tassi di mercato. Non è tutto. Il solo fatto che le imprese non trovino conveniente investire, pur in presenza di tassi bassi, significa che non sarebbero capaci di ricavare valore da tali investimenti, cioè che esistano molte realtà “zombie”, che vanno avanti quasi per inerzia e si mostrano poco competitive, altrimenti dovrebbero attingere ai capitali abbondanti per investire, mentre evidentemente nemmeno i bassi interessi da pagare li metterebbero a frutto esitando un profitto.
Dietro ai tassi negativi, quindi, si nasconderebbe una società “depressa”, stazionaria, che non troverebbe più alcun impulso a investire, innovare, compiere di tanto in tanto quel “salto” tecnologico che nelle società avanzate è ormai l’unico in grado di alimentare nuove occasioni di crescita. Se tutto questo fosse vero, perché negli USA non si ha riscontro di questo fenomeno? Gli americani sono ancora una popolazione più giovane di europei e giapponesi. Anche sul piano economico si mostrano più vitali, dinamici, grazie a svariati fattori, tra cui una tassazione premiante e una cultura d’impresa e del fare più diffusa e universalmente accettata.
Per essere brutali, il “welfare” nel Vecchio Continente è stato una grande conquista da un lato, ma dall’altro ha fiaccato gli animi, ci ha resi meno propensi al rischio, mollicci e meno inclini a scommettere sul futuro, spingendoci a correre a ripararci sotto la gonnella dello stato in cerca di protezione.
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