Sono mesi difficili per la prima economia dell’America Latina, fino a poco tempo fa considerata un esempio di crescita di un’emergente e dell’uscita dalla povertà per decine di milioni di abitanti. Adesso, quelle stesse misure che hanno consentito a milioni di famiglie di entrare a fare parte della classe media rischiano di farle ripiombare in povertà. Svanito il boom delle materie prime, il Brasile sta affrontando nel peggiore dei modi la crisi, che è anche politica, considerando che pende sulla testa della presidente Dilma Rousseff una dozzina di richieste di “impeachment”, essendo stato certificato dai controllori contabili la falsificazione del bilancio dello scorso anno ed essendo indagata dai magistrati per presunti finanziamenti illeciti ricevuti nell’ultima campagna elettorale.
Recessione Brasile e crisi politica
Basterebbe questo quadro a destare più di un allarme, ma leggendo i numeri dell’economia, le cose stanno ancora peggio. Il deficit pubblico si attesta quest’anno al 9% del pil, ossia a 536 miliardi di real, quando era appena del 3% un anno e mezzo fa. Il debito pubblico salirà quest’anno al 66% del pil e nel 2016 al 70%. Fu trovato dalla Rousseff al 52% nel 2011, quando iniziò la sua prima presidenza. Per gli standard europei e delle altre economie avanzate, il debito brasiliano verrebbe considerato basso, ma si tratta pur sempre del più alto in America Latina e tra le economie emergenti e preoccupa, in particolare, la velocità del deterioramento dei conti pubblici. A settembre, il debito in valuta straniera ha superato la soglia dei 400 miliardi di real, ma resta contenuto al 9% del pil. Nonostante il real abbia perso il 30% negli ultimi 12 mesi, quindi, non desta allarme il debito denominato in dollari o altre valute, anche se i rendimenti dei titoli decennali in dollari sono saliti al 6% dal 4% di un anno fa, segnalando la crescente sfiducia degli investitori verso il paese sudamericano.