Ennesimo piano di salvataggio per Alitalia. Il nuovo direttore generale, Gianluca Zeni, in vista della data del 31 maggio, entro la quale il destino dell’ex compagnia di bandiera dovrebbe essere chiarito una volta per tutte, punta al taglio di 1.000 unità di personale e alla riduzione della flotta aerea di 8 unità. Le attività “in bonis” confluirebbero in una newco, sgravata dai debiti e resa così appetibile agli occhi dei potenziali acquirenti. Delta, che fattura 44 miliardi di dollari all’anno, ha messo sul piatto solamente 100 milioni, cosa che la dice molto lunga sulla “stima” che Alitalia riceva in giro per il mondo.
I numeri dell’ultimo resoconto finanziario parlano chiaro. I primi 9 mesi del 2019 si sono chiusi con un margine operativo lordo negativo per 114 milioni di euro, in fortissimo aumento dai -37 milioni segnati nello stesso periodo dell’esercizio precedente. Poiché nell’ultimo trimestre del 2018 la compagnia registrò un Mol di -84 milioni, a parità di trend, supponiamo che abbia chiuso il 2019 a circa -200 milioni, dato che si confronta con i -120 milioni dell’intero 2018. Attenzione: parliamo della sola gestione industriale, al netto di quella finanziaria. In altre parole, Alitalia non va malissimo solo perché è indebitata, anzi il suo principale problema è che vola in perdita.
In effetti, se passiamo dal Mol al risultato finale, il commissario Giuseppe Leogrande avverte che nel 2019 sarebbe andata un po’ peggio del 2018, quando la perdita era stata di 300 milioni. Si stima un rosso totale in area 330 milioni. E non pensate che il costo del personale sia la vera zavorra. Esso ha inciso per 500 milioni nei primi 9 mesi dello scorso anno, a fronte di un valore della produzione di 2,396 miliardi, in lieve calo dai 2,409 dei primi 9 mesi del 2018. Dunque, il costo del lavoro pesa per poco più di un quinto dei ricavi, sebbene sia lievitato di 53 milioni su base annua, a causa del rientro di parte del personale dalla cassa integrazione.
Prepensionamenti Alitalia, il piano del nuovo commissario lo paghiamo ancora noi
I costi di Alitalia e i prestiti “a fondo perduto”
La principale voce di costo è rappresentata, invece, dal carburante: 646 milioni da gennaio a settembre, in forte rialzo dai 584 milioni dello stesso periodo dell’anno precedente. Qui, a parte evitare di sottoscrivere polizze demenziali come prima del commissariamento dell’aprile 2017, la compagnia poco può fare. Sono le quotazioni internazionali a determinare i costi, uguali per tutti. Infine, altri 173 milioni sono stati spesi per il noleggio degli aerei, in calo da 180 milioni. Quanto ai passeggeri, sarebbero diminuiti lievemente nell’intero anno da 21,49 a 21,4 milioni.
Tirando le somme: la compagnia spende troppo e il suo fatturato non cresce, né si mostra capace di attirare nuova “clientela”. Ne consegue che le perdite annue, spalmate sul numero dei passeggeri trasportati, fanno qualcosa come 15,40 euro. In sostanza, ogni volta che un aereo Alitalia si alza in volo, lo fa in perdita. E sapete chi paga quei 15 euro e passa di rosso a passeggero? Il contribuente italiano. Solamente dal commissariamento, il governo ha prestato alla compagnia 1,3 miliardi di euro, di cui 400 milioni da poco stanziati. Senza nemmeno considerare i costi a carico della collettività della cassa integrazione, fanno 21,50 euro per ciascun residente nello Stivale.
Oltre il danno, la beffa. La società non è stata ancora in grado di pagare allo stato i 100 milioni dovuti come interessi sul prestito da 900 milioni, mentre il governo “giallo-verde” ha abbuonato quelli dall’1 giugno 2019, che non sono più dovuti. In pratica, abbiamo prestato soldi a interessi zero e non era difficile prevederlo. Anzi, dovremmo ammettere che i prestiti siano stati a fondo perduto, perché risulta comico immaginare che verranno mai restituiti. Di fatti, il Tesoro già ipotizza di trasformare almeno parte del credito in capitale, entrandovi da socio.
Il fallimento di Alitalia resta la strada maestra