C’è un paradosso in questa fase congiunturale dell’economia mondiale. Gli USA sono il paese che meglio starebbe reagendo all’impennata dell’inflazione, anche se sono la prima grande economia ad essere entrata in recessione. I prezzi al consumo hanno rallentato la crescita nel mese di luglio e i salari orari, per quanto stiano crescendo di meno, segnano comunque rialzi annuali superiori al 5%. La situazione è ben peggiore in Italia, dove l’ISTAT certifica che nel semestre gennaio-giugno i salari orari sono cresciuti dello 0,8%, a fronte di un’inflazione al 7,9% nel mese di luglio.
Stipendi italiani in calo da decenni
L’Italia vive da decenni una questione salariale irrisolta. Tra il 1990 e il 2020, gli stipendi reali sono mediamente diminuiti del 3%, unico caso tra le economie avanzate. Il trend riflette una bassissima crescita dell’economia italiana, che a sua volta è conseguenza della scarsa produttività del lavoro. E questo non significa che i lavoratori siano sfaticati, semmai che languano gli investimenti per ammodernare le tecniche produttive e che la nostra economia continui a reggersi su comparti a basso valore aggiunto.
Fatto sta che accadeva neppure negli anni dell’inflazione a due cifre che i salari restassero così indietro. Anzi, tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta ci pensò la scala mobile ad indicizzare le buste paga all’indice dei prezzi. Ne seguì una spirale rovinosa e un appiattimento salariale dalle conseguenze devastanti per i decenni successivi.
Qualcuno s’illude che con il calo futuro dell’inflazione – si spera al più presto – la questione salariale in un certo senso rientri. Ma si tratta di un’illusione per l’appunto. Ad esempio, se tra un anno l’inflazione sarà scesa all’1%, significherà che rispetto ad oggi i prezzi al consumo saranno aumentati di poco, ma pur sempre aumentati.
Questione salariale rimarrà con bassa inflazione
Solo se l’Italia entrasse in deflazione, la questione salariale sarebbe risolta. Se l’indice dei prezzi iniziasse a scendere, anziché salire, compensando gli aumenti di questi mesi, tutto sommato l’allarme rientrerebbe. Altro problema sarebbe il contraccolpo di un simile scenario. Probabile che molte imprese andrebbero a gambe per aria, nel caso in cui non riuscissero a tagliare i costi della stessa percentuale in cui calerebbero i prezzi da loro fissati.
Chi s’immagina che i lavoratori italiani lasceranno perdere quando l’inflazione tornerà a crescere a livelli più normali, sbaglia. A meno che non accettino una decurtazione reale dei loro salari di un buon 6-7% dopo il calo accusato negli ultimi decenni. Il fenomeno del Great Resignation, che nel nostro Paese starebbe più che altro prendendo le sembianze di un Great Desertion ai colloqui di lavoro, è lì a dimostrarci che non ci starebbero a guadagnare di meno a parità di ore lavorate. E se la questione salariale non venisse risolta per tempo, magari agevolata da un taglio corposo del cuneo fiscale, rischiamo fabbriche e scaffali dei negozi semi-vuoti. E la carenza di offerta procrastinerebbe il fenomeno dell’inflazione.