Si chiama Sung Kook Hwang ed è il nome del finanziere sudcoreano, ma americano di adozione, che sta facendo tremare il mondo della finanza internazionale. L’uomo fu uno dei dirigenti di Tiger Management, il fondo speculativo di Julian Robertson, che tra gli anni Ottanta e Novanta fece una fortuna di decine di miliardi di dollari grazie alle sue scommesse sui mercati. Nel 2000, a seguito della chiusura del fondo, Hwang fondò un suo hedge fund, chiamato Tiger Asia. Nel 2013, anche questi è stato chiuso, a seguito di una sanzione comminata dalla SEC, l’ente che vigila sulla borsa americana, per 44 milioni di dollari e legata a un caso di insider trading.
A quel punto, inizia una seconda vita ancora più fortunata di Hwang, che sfrutta la legislazione finanziaria americana per dare vita a un suo “family office”. Si tratta di una veste societaria, che gli consentirà per tutti questi anni di gestire patrimoni miliardari senza obblighi di comunicazione significativi verso le autorità. Sotto i 15 clienti gestiti, infatti, la normativa esentava da tali incombenze fino al 2010, anno di approvazione della Dodd-Frank Act, con cui l’amministrazione Obama inasprì le regole sulla trasparenza, ma continuando ad esentare proprio i “family office”.
Ed ecco che accade che Hwang, per quanto dalla reputazione appannata dal caso di insider trading, diventi un cliente abbastanza profittevole per le banche d’affari. Necessitando di sostegno per i suoi investimenti speculativi, offre commissioni apparentemente così generose, da far passare in secondo piano i problemi di natura reputazionale. Il suo trading funziona così: la società investe su un titolo e ci mette solo la metà della somma necessaria ad esporsi, mentre l’altra metà gli arriva dai broker, ossia le banche. Quando il valore dell’investimento si riduce oltre una certa soglia, il broker pretende che il margine iniziale venga ripristinato (“margin call”).
I crolli azionari in borsa
Ecco, questo è accaduto in questi ultimissimi giorni. Diverse scommesse miliardarie di Hwang si sarebbero rivelate errate. Le banche hanno così fatto scattare il “margin call”, ma non avendo ricevuto dal fondo le somme richieste, hanno iniziato a vendere le azioni di cui sono entrate in possesso per cercare di uscire dall’investimento. E così, diversi titoli, specie del comparto media e tech, sono precipitati. Le perdite minori sono state accusate da Tencent (-3,8%), mentre già Baidu è sceso del 10,6%. Molto peggio è andata a colossi come Vipshop (-37,5%), Discover (-47%) e Viacom (-55%). In tutto, il controvalore delle vendite ha superato i 33 miliardi.
A seguito di questi tracolli, non essendone nota la causa, la finanza di tutto il mondo ha iniziato a interrogarsi circa il crac di qualche hedge fund. La conferma che di questo si trattasse è arrivata lunedì, quando la banca giapponese Nomura ha quantificato in 2 miliardi di dollari le perdite derivanti dal crac di un cliente. Dall’altra parte del mondo, la svizzera Credit Suisse ha avvertito circa le possibili severe conseguenze dell’accaduto sui suoi conti. Nel frattempo, sono circolati altri nomi di vittime eccellenti, pur con esposizioni molto minori, come Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS e la solita Deutsche Bank. Le azioni di Nomura sono crollate del 16,3% in un’unica seduta, quelle di Credit Suisse del 15,2%.
A questo punto, il passaparola ha individuato in Hwang l’epicentro del crac. E l’episodio imbarazza alquanto le autorità americane, che a poco più di un decennio dalla terribile crisi dei mutui subprime, che tante conseguenze devastanti ebbe sull’economia mondiale, si ritroverebbero ignare del profilo di un grosso investitore con sede a New York.