Dal Tesoro sono arrivati i dati consuntivi sul 2018 e ci sono notizie sorprendenti su una delle voci più discusse e monitorate nell’ultimo anno: la spesa per interessi sul debito pubblico. Risulta diminuita di circa 600 milioni, scendendo dai 65,5 miliardi del 2017 a 64,9 miliardi. In rapporto al pil, si è passati dal 3,8% al 3,7%. Sembra poco, ma la direzione è stata certamente positiva. Dicevamo, sorprendente, date le chiacchiere di tutti questi mesi sul presunto impatto esplosivo sui conti pubblici del maggiore spread. In realtà, chi mastica i fondamentali di finanza pubblica sa benissimo che una lievitazione del costo di rifinanziamento del debito pubblico non ha effetti immediati visibili sui conti, visto che lo stock non scade interamente in un anno, per cui l’aumento degli oneri impiega anni per concretizzarsi.
Perché il debito pubblico continua a costare sempre meno, anche con lo spread alto
Facciamo un esempio: se scade un BTp di 5 miliardi e che a suo tempo era stato emesso al rendimento medio lordo del 5%, significa che sto rimborsando un debito che ogni anno mi gravava sul bilancio per 250 milioni in interessi. Se lo rimborso emettendo un BTp al rendimento medio del 2% e sempre per 5 miliardi, il nuovo costo incide sui conti per 100 milioni. Dunque, ho risparmiato 150 milioni. E’ quanto sta accadendo negli ultimi anni: poiché scade debito emesso prima che la BCE facesse crollare i rendimenti sovrani con la sua politica monetaria ultra-espansiva, le nuove emissioni per rimborsarlo si mostrano meno gravose per lo stato e il costo del debito diminuisce, anche se il debito sale in valore assoluto e persino in rapporto al pil.
Cosa accadrà nei prossimi anni?
Di questo passo, la festa continua fino a quando non ci troveremo ad emettere titoli del debito a costi almeno uguali a quelli sostenuti sui titoli da rimborsare.
Debito pubblico trasformato in un maxi-mutuo, ecco come abbattere lo spread
Confrontando il rendimento medio dei titoli negoziabili nell’aprile 2018 con gli ultimi dati disponibili e relativi al marzo 2019, ricaviamo che il costo potenziale a carico dello stato sia salito da poco più dell’1% all’1,9%. Fanno circa 18 miliardi in più a regime su uno stock di circa 2.000 miliardi. L’apice era stato raggiunto in ottobre con il 2,8%. Il Tesoro, però, ha parlato di cifre un po’ diverse, spiegando che nel primo trimestre 2018 il costo medio all’emissione era stato dello 0,5% e nell’ultimo trimestre era salito all’1,5%. La divergenza con il Rendistato della Banca d’Italia deriva dal fatto che questo monitora l’andamento di tutti i titoli circolanti, mentre Viale XX Settembre si riferisce al costo del debito di nuova emissione. E si consideri che parte del contenimento della spesa sia avvenuto accorciando di qualche mese la vita residua media ponderata dei bond dagli 83,5 mesi (6,9 anni) di febbraio 2018 a un minimo di 80,8 mesi di novembre, anche se da allora è tornata a salire a 81,8 mesi (6,8 anni).