Il debito pubblico italiano lo avevamo lasciato a poco meno di 2.410 miliardi di euro a luglio, ma ieri la Banca d’Italia ci ha fornito il dato di agosto, “in calo” di 3,3 miliardi a 2.462,6 miliardi. Errore o è successo qualcosa di anomalo nel conteggio? In effetti, l’Eurostat a settembre ci ha imposto un ricalcolo di pil e debito pubblico, con la conseguenza che lo stock del secondo è risultato di 58,3 miliardi più alto, includendo retroattivamente gli interessi maturati e non ancora sborsati dai Buoni fruttiferi postali e le passività tra l’altro della Rete ferroviaria italiana.
La “cancellazione mascherata” del debito pubblico italiano da parte della BCE
Non cambia nulla in termini concreti, nel senso che il debito pubblico italiano alto era e alto rimane. Comunque lo si calcoli, in rapporto al pil tende ad attestarsi a circa un terzo in più e preoccupante si mostra la dinamica tutt’altro che stabile. Poiché l’economia italiana non cresce e la stessa inflazione rimane più prossimi allo zero che al target della BCE “vicino, ma di poco inferiore al 2%”, il rapporto debito/pil non accenna a diminuire nemmeno approfittando dei bassissimi rendimenti dei titoli di stato, che consentono al Tesoro di rifinanziarsi a costi da sogno.
Bassi tassi, ma pil fermo
Grazie all’azzeramento dei tassi e al varo del “quantitative easing”, nel 2018 l’Italia ha sborsato “solo” il 3,7% del pil per pagare gli interessi sul debito, percentuale nettamente superiore al picco di oltre il 5% toccato negli anni precedenti, quando l’entità del debito risultava più bassa sia in valore assoluto che in rapporto alle dimensioni della nostra economia. Lo stock ci costava oltre il 4% nel 2012, nemmeno il 2,75% lo scorso anno. E inciderà ancora meno quest’anno e il prossimo, tenuto conto che i rendimenti italiani siano scesi mediamente a poco più di mezzo punto percentuale a settembre, giù da quasi il 3% dell’ottobre 2018.
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Ma se emettere nuovo debito ci costa sempre meno, l’entità del debito stesso non si riduce rispetto a un pil fermo. Il governo stima che nel 2020 vi sarà una lieve discesa in termini percentuali, ma dubitiamo che accada. Fissando al 2,2% il target del deficit e stimando nel Def una crescita dello 0,6%, servirebbe un’inflazione superiore all’1% per stabilizzare il rapporto. A settembre, la crescita tendenziale dei prezzi in Italia è stata dello 0,4% per il terzo mese consecutivo e sotto l’1% per il quinto. Quest’anno, solamente in aprile aveva superato l’1% e, peraltro, di un soffio, attestandosi all’1,1%.
Poiché i prezzi risentono dell’andamento della congiuntura e sappiamo che questa si stia dirigendo verso una nuova fase recessiva per via del rallentamento internazionale, difficile che avremo nei prossimi mesi un’accelerazione stabile del tasso d’inflazione, a meno che sul mercato del petrolio non si verifichi un qualche evento avverso che faccia impennare le quotazioni per un periodo prolungato, nel quale caso l’inflazione in Europa lieviterebbe, ma l’economia scivolerebbe ulteriormente, trattandosi di un impatto negativo per la produzione e i consumi. Senza una ripresa dell’Eurozona, l’inflazione non rialzerà la testa, a maggior ragione in Italia, dove il pil continua a crescere a ritmi nettamente inferiori al resto dell’area.
Rapporto debito/pil in crescita nel 2020?
Tutto questo ci spinge a credere che non solo nel 2020 il debito pubblico italiano si dirigerà verso i 2.500 miliardi, ma che il suo rapporto con il pil non scenda, anzi rischi di salire ancora e potenzialmente anche ben oltre il 135%.
Certo, l’Italia non convive da oggi con un debito super. E’ da inizio anni Novanta che abbiamo un rapporto sopra il 100%, né stiamo assistendo a brusche accelerazioni. In più, i tassi bassi ci consentono ultimamente di indebitarci, al netto delle scadenze, a costi persino inferiori alla crescita nominale del pil. Però, quando i tassi saliranno, non solo torneremo gradualmente a spendere di più ogni anno per servire il debito, esso stesso sarà nel frattempo cresciuto di parecchie centinaia di miliardi rispetto all’era pre-QE, minacciando la sostenibilità dei conti pubblici. Dovesse lo stock costarci oggi stesso il 4% in interessi come negli anni precedenti agli stimoli monetari, la spesa da affrontare sarebbe di 100 miliardi, 35 in più di oggi, pari a +2 punti di pil. A parità di avanzo primario, il deficit esploderebbe a oltre il 4% e i mercati forse inizierebbero davvero a toglierci la fiducia.
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