La crisi argentina ha avuto origine nel corso del 2018 da due pasticci. Uno è stato causato dal governo e l’altro dalla banca centrale. Il primo si è mostrato timido nel tagliare il deficit, nonostante avesse ottenuto una forte apertura di credito dai mercati finanziari nel biennio precedente, grazie alla quale aveva potuto finanche emettere un bond a 100 anni a tassi relativamente bassi. La seconda è apparsa poco indipendente dal potere politico, facendo marcia indietro sulla stretta monetaria e al contempo alzando le previsioni sull’inflazione.
Argentina in calma apparente con i controlli sui capitali, recupera il bond a 100 anni
La banca centrale, dicevamo, è concausa forte di questo disastro e molto probabilmente provocherà, se non il default esplicito come all’inizio degli anni Duemila, quanto meno una ennesima ristrutturazione del debito sovrano argentino. Come? L’istituto possedeva alla fine di agosto debiti cosiddetti “Leliq” per 1.316,5 miliardi di pesos, qualcosa come oltre il 10% del pil del 2018. Di cosa parliamo? Buenos Aires ha una pessima storia di monetizzazione del debito. I governi spendono e la banca centrale finanzia i deficit. Questo gioco non è gratis, perché produce inflazione, cioè impoverisce le famiglie e finisce con l’allontanare gli investimenti per l’impossibilità di prevedere il livello dei prezzi (ricavi) futuri.
Per questo, il presidente Mauricio Macri aveva cercato di porre un freno alla pratica, imponendo la sterilizzazione degli anticipi di cassa di fatto mai restituiti. In che senso? Se la banca centrale finanzia il deficit del governo, inietta liquidità e fa accelerare la crescita dei prezzi.
Il debito argentino salirà ancora?
Il Fondo Monetario Internazionale si è accorto di tale incongruenza e ha preteso nel 2018, in fase di erogazione del maxi-prestito da 56 miliardi di dollari, la soppressione delle vecchie Lebac (Letras de Banco Central) con le Leliq, la cui durata è più corta (settimanale) e che possono essere emesse solamente nei confronti delle banche. Gli interessi sono esplosi nel frattempo all’85%, per cui questo meccanismo perverso tra prestiti e rinnovo a interessi crescenti e conseguente necessità della loro monetizzazione ha costretto da ultimo la banca centrale a mettere le mani sulle riserve valutarie per ben 8 miliardi di dollari nel solo mese di agosto, al fine di porre un limite ai crolli del cambio e cercare così di riprendere il controllo della politica monetaria.
Ma al netto delle passività, le riserve valutarie argentine ammontano ad appena 15 miliardi, per cui si sono resi necessari controlli sui capitali per frenarne la caduta. Basterà? Improbabile. I debiti dell’istituto sono ancora lì e devono essere rinnovati settimana dopo settimana e la monetizzazione degli interessi impedisce all’inflazione di decelerare a ritmi consistenti. Per spezzare l’incantesimo occorre un’opera di sdebitamento, ovvero lo spostamento delle passività a carico dello stato. Solo così, il governatore avrebbe modo di combattere efficacemente l’inflazione, anche se ciò implica un aumento del debito pubblico ufficiale (alla fine si tornerebbe a far pagare chi effettivamente ha originato i “buchi”), cosa che verosimilmente porterebbe o alla ristrutturazione delle scadenze o al default.
Argentina: verso ristrutturazione del debito, ma non tutto
L’Argentina sotto Macri ha accresciuto al 70% il debito in valuta straniera, mentre quello totale valeva intorno all’86% del pil a fine 2018. Con le Leliq si oltrepasserebbe il 100% e Buenos Aires ha messo le mani avanti, chiedendo un “reprofiling” dei 44 miliardi ottenuti già dall’FMI. Un disastro, che rischia di travolgere la credibilità anche dell’organismo internazionale, che ormai sembra disilluso sulle reali capacità dello stato sudamericano di rimettersi in carreggiata stabilmente e su una traiettoria di crescita sostenibile. Ciliegina sulla torta: le elezioni presidenziali di ottobre/novembre con ogni probabilità riporteranno a Casa Rosada un peronista, ossia il candidato Alberto Fernandez, fautore dei bassi tassi, del deficit spending, del controllo sui capitali e della rinegoziazione del debito con l’FMI. E la banca centrale sarà ancora meno indipendente, mentre l’inflazione rischia di galoppare senza fine e il cambio di collassare senza più alcun “floor”.