La nascita del governo Conte ha due vincitori e due sconfitti. I primi due si chiamano Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i secondi Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Vi ricordate la riforma elettorale di pochi mesi fa? Il Rosatellum era stato messo in piedi da PD e Forza Italia per sventare il pericolo di una vittoria del Movimento 5 Stelle con la maggioranza assoluta dei seggi e, in subordine, per consentire una riedizione del patto del Nazareno il giorno dopo le elezioni.
Conte premier e Berlusconi senza amici al governo?
Non avevano fatto i conti con gli italiani. Il PD si aspettava che, tutto sommato e nonostante il disastro di oltre 6 anni al governo senza produrre risultati tangibili, i suoi consensi non sarebbero mai e poi mai scesi sotto il 25%. Anzi, mentre riscriveva la legge elettorale, confidava seriamente nel 30%. E Forza Italia ancora credeva che il suo sempiterno leader avrebbe rimontato con una ennesima campagna elettorale all’insegna di promesse mirabolanti, ignara che dopo 25 anni di politica vissuta in prima linea e circa 11 al governo, pochi elettori sarebbero stati disposti a concedergli nuovo credito e, soprattutto, a considerarlo un “outsider” rispetto alla classe dirigente della Seconda Repubblica.
Berlusconi è il grande sconfitto dopo Renzi anche per la sua inversione di rotta di linea politica e di linguaggio negli ultimi 5 anni, rivelatasi del tutto fallimentare. L’ex premier sperava che mostrandosi non più “populista” e moderato, avrebbe potuto recuperare la stima dell’establishment da un lato e i consensi degli italiani dall’altro. E’ finito per centrare grosso modo il primo obiettivo, guadagnandosi il rispetto per le sue aziende, ma ha perso i secondi.
I non amici di Berlusconi nei posti-chiave di governo
Il neo-ministro dello Sviluppo è Di Maio, leader dei pentastellati. Un bel problema per Silvio. Quella posizione sarà dirimente per il caso in cui Mediaset dovesse subire una scalata ostile da parte di un investitore, come l’attuale socio di minoranza Vivendi, che è salito a poco sotto del 30% del capitale e che attenta al controllo di Fininvest, la holding della famiglia Berlusconi. Quando nell’estate scorsa si è materializzato proprio questo scenario, Carlo Calenda è sceso in campo per difendere l’asset “strategico” nazionale dalle scorrerie di Vincent Bolloré, evitando che i Berlusconi fossero costretti a mettere mano al portafogli per sganciare i quattrini necessari a mettere in sicurezza il controllo delle reti TV. E l’AgCom ha fatto il resto, ordinando a Vivendi il “congelamento” della quota eccedente il 10%, a causa del potere dominante che altrimenti avrebbe nel mercato delle telecomunicazioni italiano, essendo azionista di maggioranza in TIM.
Ora, però, Vivendi ha perso il controllo di fatto esercitato in TIM, grazie a un’operazione congiunta tra Cassa depositi e prestiti (Tesoro) ed Elliott, quest’ultimo un fondo americano che Berlusconi conosce bene, avendo agevolato la cessione del Milan al cinese Yonghong Li, erogando due linee di credito alla società rossonera e all’acquirente.
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Berlusconi e la non opposizione al governo Conte
Ciò presuppone che il leader di Forza Italia non possa fare opposizione dura alla parte “grillina” del governo, come pure ha annunciato, formalmente risparmiando dagli attacchi solo gli “alleati” leghisti. Di Maio deterrebbe un potere di ricatto piuttosto esplicito, come emerge dall’accordo sul programma, che contempla una rivisitazione in senso restrittivo della legge sul conflitto di interessi, bestia nera per Berlusconi. E con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, anch’egli grillino e d’impronta giustizialista, ogni uscita incauta rischia di venire pagata a caro prezzo. E i vertici dell’authority verranno presto rinnovati. La scelta del presidente spetta al premier e quella degli altri componenti ai presidenti di Camera e Senato. E a giugno scadono i vertici Rai, le cui nomine spettano ancora al governo, mentre il cda riguarda il Parlamento a maggioranza sempre giallo-verde. Forza Italia bombarderà mediaticamente Giuseppe Conte? Non otterrà nulla dalle nomine, né il suo capo verrà garantito più di tanto da Matteo Salvini con riferimento ai suoi legittimi interessi aziendali.
E le truppe di cui l’ex premier dispone in Parlamento, già ridotte all’osso dopo il 4 marzo, rischiano di sfarinarsi, attratte in parte dalla Lega, che con il suo 25-27% accreditatole dai sondaggi contro l’8-10% di Forza Italia rappresenterebbe per molti deputati e senatori un’arca di Noè in cui riparare per continuare ad esistere oltre la legislatura.
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