E’ di ieri la diffusione degli ultimi dati Istat sul mercato del lavoro in Italia. Il tasso di disoccupazione è sceso a dicembre al 10,3%, mentre quello di occupazione è salito al 58,8%, segnando un record dal 2008 e portandosi a un soffio dai massimi storici toccati proprio 10 anni prima. In tutto il 2018, risultano essere stati creati 200.000 posti di lavoro. Sembrerebbe l’evoluzione positiva di un quadro che va migliorando, ma quando si passa al confronto con il resto d’Europa, si notano le crepe.
Perché l’economia italiana entra in recessione e la disoccupazione scende?
Parte del problema è legato alla persistenza dell’economia sommersa, che al sud, in particolare, genera lavoro nero. Non si capirebbe altrimenti, ad esempio, come con tassi medi di occupazione che supererebbero a stento il 50% in molte aree del Meridione e in altre, come la Sicilia, con livelli persino inferiori, la popolazione riuscirebbe a vivere sotto Roma. E’ evidente che, per quanto mal retribuiti e precari, i posti di lavoro in nero sostentino una parte non indifferente del mercato, alleviando parzialmente le sofferenze delle famiglie. Senza il sud, il nord dell’Italia figurerebbe in linea con le classifiche europee.
La crisi dell’ultimo decennio ha profondamente stravolto il mercato dell’occupazione e, come vedremo, a vantaggio prettamente del centro-nord del continente. La Germania, prima economia europea e quarta al mondo, è passata da una percentuale di occupati rispetto alla popolazione in età lavorativa (15-64 anni) di poco inferiore al 70% a una del 76,3%. Meglio fa l’Olanda con il 77,7%, sebbene rispetto al 2009 non abbia registrato passi in avanti, pur a fronte di mezzo milione di occupati in più. In valore assoluto, i lavoratori in Germania sono aumentati di ben 3,9 milioni di unità.
Il nord surclassa il sud sul lavoro
La Francia con il 65,9% si attesta nella parte medio-bassa della classifica e nell’ultimo decennio segna un +1,4%. Ad ogni modo, gli occupati qui sono cresciuti di 1,4 milioni di unità, secondi in valore assoluto alla sola Germania. La Spagna segue con +600.000, esibendo un tasso di occupazione oggi al 64% contro il 61,5% di inizio 2009. Pure l’Italia, nonostante sia l’unica grande economia al mondo a non avere recuperato i livelli di ricchezza del 2007, ha fatto passi in avanti, portandosi a 23,27 milioni di occupati, 470.000 in più nel periodo considerato e superando di poco l’Austria, che di occupati in più ne ha registrati circa 430.000, ma vantando oggi un tasso di occupazione al 73,8% contro il 69,7% di un decennio fa. Il nostro Paese, in termini percentuali, è migliorato di appena l’1%.
Il Portogallo, che oggi viene guardato con ammirazione per la capacità dimostrata di superare la crisi senza mettere a repentaglio i conti pubblici, non ha incrementato il numero degli occupati e percentualmente è sceso dal 56,4 al 55. Certo, ha fatto senz’altro meglio della Grecia, la grande vittima della crisi dell’euro, che dal 2009 ha perso 600.000 occupati su una popolazione stabile intorno agli 11 milioni di abitanti e vedendo crollare il tasso di occupazione dal 61,2% al 54%. Sarebbe come se l’Italia avesse registrato la perdita netta di 3,3 milioni di posti di lavoro in 10 anni, una tragedia.
Volendoci limitare alle principali economie dell’area, notiamo che dopo lo scoppio della crisi nel 2008, la Germania e il resto delle economie del centro-nord ad essa affini (Austria, Olanda, Finlandia e Belgio) sul piano delle vedute geopolitiche hanno creato circa 5,2 milioni di posti di lavoro, mentre il sud (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) appena 470.000.
L’Europa, non la Cina, vero problema per l’economia mondiale
Aumentano le distanze tra nord e sud
Complessivamente, ci troviamo con un Mediterraneo dai tassi medi di occupazione non superiori al 60% e un centro-nord che sfonda persino il 75%. Con questi numeri, vi è una sola certezza: la domanda interna è diventata più solida al nord, dove le finanze statali si sono giovate proprio dell’aumento degli occupati e del relativo gettito fiscale (imposte sui redditi, contributi previdenziali, IVA, etc.); al sud, il mercato del lavoro ha recato all’economia e al fisco benefici scarsi, mentre in Grecia il suo contributo è stato alquanto negativo.
E la creazione di posti di lavoro non solo ha riflessi sulla domanda interna, è essa stessa lo specchio dei livelli di produzione. Se oltre 5 milioni di persone in più lavorano oggi nel centro-nord rispetto al 2009, contro l’appena mezzo milione del sud, significa che nell’arco di questo ultimo decennio non vi è stato granché in più da produrre dalle Alpi in giù, mentre gli impianti dopo la crisi si sono rimessi in funzione nella Mitteleuropa, così come in Scandinavia. Se poi aggiungiamo che tra Germania, Olanda e Belgio ballano esportazioni nette annue per circa 340 miliardi di euro, qualcosa come il 3% del pil dell’intera Eurozona, capiamo meglio quanto grave stia diventando il “gap” tra nord e sud. Non solo il primo crea lavoro, attirando manodopera dal secondo, ma per giunta lo utilizza per vendere beni e servizi all’estero, cioè anche a noi. E con la sola eccezione dell’Italia, le suddette economie del Mediterraneo registrano pure disavanzi commerciali piuttosto cronici e pari a una sessantina di miliardi all’anno, al netto del nostro surplus, a riprova di come la fuga del lavoro verso nord sia dovuta essenzialmente a un problema di competitività.
69.8 – 76.3 germania (41 a 44,9 mln) +3,9 mln (63,9%) centro-nord +5,18 mln
64,5 a 65,9 Francia (26,8 a 28,2 mln) +1,4 mln (23%) centro-sud+francia: 1,8 mln
61,5 a 64 Spagna (19 a 19,6 mln) +0,6 mln (10%) irlanda +0,19
57,8 a 58,8 Italia (22,8 a 23,27 mln) +0,47 mln (7,7%)
69,7 a 73,8 Austria (3,3 a 3,73 mln) +0,43 mln (7%)
61,7 a 65 Belgio (3,82 a 4,07 mln) +0,25 mln (4,1%)
68,1 a 72,1 Finlandia (2,45 a 2,55 mln) +0,1 mln (1,6%)
65 a 69,1 Irlanda (2,08 a 2,27 mln) +0,19 mln (3,1%)
56 a 55,4 Portogallo (4,8 a 4,8 mln) 0
61,2 a 54 Grecia (4,5 a 3,88 mln) -0,6 mln
77,6 a 77,7 Olanda (8,4 a 8,9 mln) +0,5 mln (8,2%)
Eurozona: 152,2 a 158,3 mln = +6,1 mln