A luglio, le ore di casse integrazione autorizzate dall’Inps sono cresciute del 10% a 449,6 milioni. Nel periodo aprile-luglio, quello interamente coperto dall’emergenza Covid, si è arrivati così a oltre 2,5 miliardi di ore. Il dato del mese scorso sottolinea come la ripresa dell’occupazione dopo lo shock dei mesi scorsi per via del “lockdown” non sia affatto arrivata, anzi resta lontana. Considerando una media di 23 giorni lavoratori e di 8 ore al giorno, i posti di lavoro tenuti in agghiaccio da uno dei principali ammortizzatori sociali previsti dalla nostra legislazione sarebbero quasi 2,5 milioni.
Il divieto di licenziamento per le imprese mette a rischio tutti i posti di lavoro
In altre parole, se le imprese fosse libere di licenziare – il divieto è stato esteso fino a fine anno – il tasso di disoccupazione s’impennerebbe, magari fino a sfiorare il 20%. Il problema esiste in tutta Europa, per quanto l’Italia partisse già prima del Covid da una condizione assai precaria, con uno dei tassi di occupazione più bassi di tutto il mondo avanzato.
Le proposte in Europa
E così, la premier finlandese Sanna Marin ha rilanciato uno dei cavalli di battaglia del suo Partito Social Democratico, quando ha dichiarato che “la riduzione a 6 ore di lavoro al giorno non dovrebbe essere accantonata”. La giovane donna ha spiegato che in passato, quando le ore di lavoro vennero abbassate a 8 al giorno, gli stipendi in Finlandia non diminuirono, anzi nei decenni crebbero. E così, aggiunge, avverrebbe anche stavolta.
In Germania, il tema della riduzione dell’orario è stato lanciato dal capo di IG Metall, Joerg Hofmann, il potente sindacato dei metalmeccanici, che invita a valutare l’idea della settimana corta di 4 giorni. Dal ministro del Lavoro, il socialdemocratico Hubertus Heil, è arrivata l’inattesa apertura: “la settimana corta di 4 giorni potrebbe essere la risposta al cambiamento strutturale di settori come l’industria dell’auto”.
Non è la prima volta che in Europa si discute di ridurre le ore di lavoro settimanali dalle 40 attualmente vigente un po’ in tutto il continente. Nel 1997, il ministro del Lavoro francese, la socialista Martine Aubry, ottenne la riduzione a 35 ore, pur annacquata nel tempo, al fine di aumentare l’occupazione. I risultati di quell’esperimento furono scarsi, ma a sinistra il tema viene riesumato dopo un paio di decenni, forse per riallacciare il dialogo con la categoria dei lavoratori, tra i quali sono andati perduti moltissimi consensi a favore di formazioni di destra, alcune delle quali euro-scettiche.
L’indebita intromissione del legislatore
E’ vero che l’orario di lavoro è stato ridotto in passato dal legislatore, ma in quei casi si trattò di adeguarsi alle mutate e migliorate condizioni del mercato del lavoro, la cui crescita della produttività rendeva possibili stipendi più alti e percepiti in meno tempo. Oggi, la situazione appare capovolta: a fronte di una crisi di proporzioni bibliche e inattesa, arrivata dopo anni di produttività stagnante, i governi vorrebbero per legge decretare che si possa lavorare non più di 6 ore al giorno o 4 giorni a settimana, così da creare nuova occupazione. Ma questa imposizione non farebbe altro che alzare i costi di produzione, disincentivando le imprese ad assumere e produrre.
Per contro, è vero che legare la giornata lavorativa a un orario standard stia diventando ormai obsoleto e che concentrare gli sforzi in un arco temporale minore contribuirebbe, in molti casi, ad accrescere la produttività. Ma non sarà una legge dello stato a stabilire tutto ciò. E’ il mercato che decide per sé, altrimenti rischiamo di uscire dalla crisi sanitaria creando le condizioni perfette per una stagnazione secolare.
Taglio orario di lavoro ma stesso stipendio: l’idea per salvare l’occupazione