Se il capo del governo parla di economia di guerra, di certo non possiamo aspettarci alcunché di straordinariamente positivo per il prossimo futuro. Mario Draghi ha smentito che l’economia italiana sarebbe già in recessione, ma nei fatti ha dipinto un quadro affatto confortante. Di certo c’è che non vorrebbe lesinare alcuno sforzo per accelerare il tasso di crescita per i prossimi anni, puntando sulle micro-riforme richieste dall’Unione Europea in cambio di sussidi e prestiti. Con il Pnrr, in ballo vi sono 191,5 miliardi di euro di Bruxelles entro il 2026, a cui si aggiungono circa 40 miliardi di investimenti nazionali.
Ma il piano fu pensato durante un’altra emergenza, cioè la pandemia. Adesso, ve n’è un’altra a minacciare non solo l’economia italiana, bensì l’intera Europa. La guerra ucraina sta convincendo almeno parte dei governi sulla necessità di varare un nuovo Recovery Plan per fronteggiare le maggiori spese militari e i costi dell’energia. Ancor prima della guerra, però, il boom dell’inflazione metteva a repentaglio il Pnrr, dato che molti cantieri restano fermi per l’impossibilità di tenere fede ai preventivi di pochi mesi prima. Un fenomeno simile a quello che si visse a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, quando il numero delle opere incompiute non a caso s’impennò.
Tutti speriamo che l’economia italiana cambi passo dopo la pandemia e che ci mettiamo alle spalle un lunghissimo decennio di crisi, nonché un trentennio di stagnazione. In realtà, alle spalle potrebbe esservi il meglio. Tra il 2015 e il 2019, nel quinquennio immediatamente precedente al Covid, l’economia italiana crebbe al ritmo medio annuo dell’1%. Eppure, in quel periodo vi erano tutti gli ingredienti favorevoli alla crescita. Parliamo dei fattori esterni, come il cambio euro-dollaro mediamente a meno di 1,13, i tassi d’interesse azzerati e la discreta crescita globale.
Economia italiana e il nodo riforme
L’inflazione italiana in quel periodo si attestò alla media annua dello 0,6%, per cui il potere d’acquisto delle famiglie fu stabile e ciò contribuì senza dubbio a mantenere una certa pace sociale. Sempre tra il 2015 e il 2019, la BCE acquistò bond per circa 2.600 miliardi di euro, al contempo iniettando centinaia di miliardi di euro di prestiti a costi finanche negativi alle banche dell’area. Insomma, il meglio delle condizioni possibili fu allora. Ciononostante, l’economia italiana crebbe a stento.
Con la fine della pandemia e il ritorno dell’inflazione, accentuato dalla guerra ucraina, la BCE si avvia a porre fine agli stimoli monetari. Già dal terzo trimestre di quest’anno potrebbe cessare gli acquisti dei bond e dalla fine del 2022 aumentare i tassi. In prospettiva, il cambio euro-dollaro si rafforzerà, mentre non sappiamo se la crescita globale reggerà al vistoso rallentamento economico della Cina e agli stravolgimenti geopolitici in corso. E’ credibile supporre che l’economia italiana acceleri con condizioni esterne meno favorevoli? Come compenseremmo le minori esportazioni? In teoria, solo con il rilancio della domanda aggregata interna (consumi, investimenti e spesa pubblica), unitamente alla produzione ci riusciremmo.
Tuttavia, consumi e investimenti (e la stessa spesa pubblica) sono correlati negativamente ai tassi d’interesse, manovrati dalla BCE. Il governo non potrà puntare in misura incisiva sulla leva fiscale, dati gli scarsissimi spazi di manovra disponibili. Infine, la produzione sarà rilanciata solamente dalle riforme, essenziali anche per ottenere i fondi europei con cui rinvigorire gli investimenti pubblici. Senza riforme non ci sarà alcuna crescita, sono l’ultimo treno per lasciare la palude. Ma se ne discute da trenta anni senza successo. E mai come in questi ultimissimi anni abbiamo avuto una classe politica così scadente, inetta, incompetente, rissosa ed erratica. Non c’è da essere ottimisti.