Ieri, il buon dato sulla produzione industriale in Cina ha fatto balzare le quotazioni del Brent a oltre 70 dollari al barile. Per trovare livelli più alti bisognerebbe tornare indietro di quasi due anni, cioè alla primavera del 2019. Da inizio anno, il petrolio è rincarato di circa il 35%. Una crescita così veloce non era forse attesa dagli stessi mercati, anche se non è solo l’ottimismo per l’uscita del pianeta dalla pandemia a surriscaldare i prezzi. L’offerta viene tenuta appositamente bassa dall’OPEC.
Su base annua, il boom delle quotazioni si sta traducendo per Riad in un’impennata dei ricavi per oltre 53 miliardi di dollari, qualcosa come il 6,5-7% del PIL. Il regno vuole mostrarsi cauto nell’aumentare l’offerta, puntando anche a consolidare le proprie quote di mercato, specie in Asia, minacciate negli ultimi anni dall’avanzata dello “shale” americano. Ad esempio, gli USA risultano oggi i secondi fornitori dell’India, mentre i sauditi sono scesi in quarta posizione.
Tornando alle quotazioni, la soglia dei 70 dollari aggiunge timori su timori. Investitori, governi e banche centrali sono tutti preoccupati della reflazione. In un solo mese, il tasso d’inflazione tendenziale nell’Eurozona è balzato dal -0,3% al +0,9%. E adesso che le materie prime stanno registrando rialzi ai massimi da anni (vedi anche il rame e gli altri metalli industriali), la corsa dei prezzi al consumo rischia di accelerare, colpendo il potere di acquisto delle famiglie quando ancora l’economia globale non si è ripresa dal durissimo colpo inferto dalla pandemia e riducendo i margini di manovra dei governatori sulle politiche monetarie.
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Niente panico, il Brent non è poi così caro
Tuttavia, bisognerebbe andare oltre il semplice trend degli ultimi mesi per constatare come il greggio di per sé non rappresenterebbe alcuna minaccia immediata alla nostra stabilità dei prezzi.
Certo, se il confronto lo facessimo con le quotazioni e il cambio di un anno fa, noteremmo che il Brent ci costa oggi il 130% in più. Infatti, a metà marzo del 2020 le quotazioni sprofondarono a circa 26 dollari (sarebbero scese nei giorni successivi fino a un minimo di poco superiore ai 16 dollari), mentre il cambio euro-dollaro si portava a ridosso della parità, attestandosi sotto 1,07. Poiché i dati degli istituti di statistica per marzo dovranno confrontare il livello dei prezzi di questo mese con quelli vigenti nello stesso mese dell’anno precedente, potremmo assistere nei prossimi mesi a una netta risalita dell’inflazione nell’Eurozona. La BCE ci ha avvertiti che proprio questo “effetto base” porterebbe l’inflazione a fine 2021 intorno al 2%. A dire il vero, ciò potrebbe accadere prima e in misura ancora maggiore delle previsioni.
Ma da qui a temere di perdere il controllo della stabilità dei prezzi ne corre, almeno facendo riferimento al solo dato sul greggio. Certo, gli stimoli fiscali e monetari sono stati e continuano ad essere così vigorosi, che nei fatti l’eccessiva liquidità disponibile rischia con la ripresa di entrare in circolazione e di fomentare i prezzi di beni e servizi. Ma ricordatevi quanto scritto sopra: il Brent rincara più per il mancato adeguamento dell’offerta.
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