Le parole dell’economista Martin Feldstein sono una doccia fredda per i fautori di un “quantitative easing” della BCE, perché a suo avviso non raggiungerebbero l’obiettivo di indebolire l’euro e di aumentare l’inflazione nell’Eurozona.
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L’economista analizza quanto accaduto negli USA, che ha dato vita a ben tre piani di stimoli monetari sin dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Da quando la Federal Reserve acquista titoli di stato USA e bond privati per aumentare la liquidità sui mercati e per sostenere i prezzi dei titoli, il dollaro americano non si è indebolito.
Né è accaduto, spiega ancora Feldstein, che l’inflazione sia cresciuta. L’indice dei prezzi è aumentato dell’1,6% nel 2010, accelerando un pò nel biennio 2011-2012, per scendere all’1,5% nel 2013.
Eppure, afferma l’economista, l’Eurozona avrebbe bisogno di una moneta unica più debole, poniamo, del 15%, per rendere l’area più competitiva e aumentare il costo delle importazioni. Ma il QE non riuscirebbe nell’intento, mentre il super-euro sarebbe dovuto proprio alle dichiarazioni di Mario Draghi nel luglio 2012, quando affermò che avrebbe fatto di tutto (“whatever it takes”) per salvare l’euro. Ciò ebbe il merito di abbassare gli spread interni, ma rafforzò la divisa europea contro le altre valute.
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Lo stesso Feldstein aggiunge che in ogni caso, un euro più debole non sarebbe la soluzione dei problemi nell’Eurozona, perché rimarrebbero le divergenze tra le economie al suo interno, ma semplicemente verrebbe risolto la questione dell’export verso il resto del mondo, che rappresenta il 50% del commercio dell’intera Area Euro.
Ma non è passando per il QE che si affievolirà il tasso di cambio dell’euro, bensì intervenendo direttamente sui mercati valutari, con la BCE che vende euro e acquista un paniere di valute straniere.
Fosse vera la valutazione di Feldstein, la BCE non potrebbe intervenire per svalutare l’euro.