L’Italia dopo le elezioni politiche non è finita nel mirino dei mercati finanziari. E già questa è una buona notizia. Certo, l’esito del voto era scontato da mesi. La vittoria di Giorgia Meloni era considerata praticamente certa dal giorno dello scioglimento delle Camere. Ad ogni modo, lo spread è rimasto contenuto e lo spavento c’è stato più per il crollo della sterlina e il boom dei rendimenti britannici dopo il taglio delle tasse in deficit varato dal nuovo governo Truss. Resta il fatto che il quadro macroeconomico che abbiamo davanti non è buono e che il rialzo dei tassi d’interesse sta già impattando molto negativamente sui conti pubblici.
L’ultimo atto del governo Draghi è stato l’approvazione della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (NaDEF) di fine settembre. In esso, traspare il rischio di una grossa frenata per l’economia italiana, che da una crescita del +3,3% di quest’anno scenderebbe ad appena 0,6%. Da qui alla recessione, il passo sarebbe breve. E per quanto il rapporto debito/PIL sia atteso in calo dal 150,8% del 2021 al 141,4% del 2025, dai numeri approvati dal governo si evince quanto il rialzo dei tassi farà male ai nostri bilanci dello stato.
Impatto sui conti del rialzo dei tassi
Con il DEF di primavera, il governo Draghi stimava una spesa per interessi per il quadriennio 2022-2025 di circa 254 miliardi di euro. A seguito dell’esplosione dei rendimenti sovrani, tale voce schizzerebbe sopra i 300 miliardi, attestandosi in area 315 miliardi. Ci sarebbe, dunque, un aumento nell’ordine dei 61 miliardi. Solo quest’anno, l’incidenza salirebbe dal 3,5% atteso al 3,9% del PIL, pari a +7,6 miliardi.
Spalmando il maggiore costo del debito sui 60 milioni di residenti in Italia, possiamo affermare che il rialzo dei tassi peserà per oltre 1.000 euro a testa entro i prossimi tre anni. L’unico modo che abbiamo per sterilizzare tale stangata sarebbe di rafforzare l’avanzo primario, vale a dire la differenza positiva tra entrate e spesa pubblica al netto degli interessi.
I mercati guardano tantissimo a questo dato, più che allo stesso deficit finale. Infatti, il saldo primario segnala la sostenibilità fiscale di un’economia prima di prendere in considerazione il costo del suo debito. Cercare di neutralizzare l’impatto sui conti pubblici del rialzo dei tassi equivarrebbe a ipotizzare un taglio della spesa pubblica e/o un aumento delle entrate (tasse). Difficilmente un’operazione simile sarebbe politicamente praticabile in uno scenario di bassa crescita o recessione.
Riforme e qualità della spesa
E allora, l’unico modo che il governo Meloni avrà per convincere i mercati circa la bontà dei futuri conti pubblici nazionali sarebbe di varare riforme a medio-lungo termine, che frenino la crescita della spesa pubblica e/o aumentino il gettito fiscale. Riforme pro-crescita e al tempo stesso che dimagriscano strutturalmente gli esborsi dello stato. Capitoli come pensioni, burocrazia e assistenza incidono in misura determinante sui bilanci. Bisogna saper concentrare le risorse su chi ne ha maggiormente bisogno e porre fine alle politiche dei sussidi a pioggia. Inevitabile, ad esempio, la revisione del reddito di cittadinanza.
Anche mantenendo invariati i livelli di spesa, la stessa qualità inciderebbe sulla percezione dei mercati. Se il sussidio fosse erogato a chi frequentasse corsi di formazione, inserimento o riqualificazione professionale, già si passerebbe a una politica attiva del lavoro. Essendo l’occupazione in Italia molto bassa, necessiteremmo di misure simili.