Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, è stato sin dall’inizio tra coloro che si sono espressi con maggiore preoccupazione riguardo alle condizioni dell’economia italiana dopo il Covid, fiutando il rischio di una ripresa lenta. Ha confermato lo scetticismo questa settimana, quando dinnanzi ai banchieri privati dell’Abi ha parlato di “conseguenze gravissime” e ha messo in guardia il governo sulla necessità di mantenere una politica di bilancio a sostegno dei redditi anche nei prossimi anni.
Come se non bastasse, l’OCSE ha rivisto in peggio le previsioni sull’Italia, stimando un crollo del pil per quest’anno del 10,5% e una risalita per il 2021 del 5,4%, molto meno del precedente +7,7%.
Queste cifre ci segnalano che i timori di Visco fossero più che fondati. Volendo essere sinceri, basterebbe avere un minimo di conoscenza di quanto accaduto all’Italia nell’ultimo decennio per capire che le probabilità di una ripresa a “V” della nostra economia risultino minime, anche perché già sembrano basse per altre grandi economie come Germania, Francia e gli stessi USA.
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Crescono le distanze con l’Eurozona
Prendendo per buoni i dati OCSE, avremmo che il livello reale del pil italiano alla fine del 2021 sarebbe del 5,7% inferiore a quello del 2019. Nell’Eurozona, sarebbe del 3,2% più basso. In altre parole, l’Italia resterebbe indietro alla media dell’intera unione monetaria di 2,5 punti percentuali e, a voler essere ottimisti, impiegheremmo altri 4-5 anni per tornare ai livelli di ricchezza prodotti nell’ultimo anno prima del Covid. In altre parole, se va bene nel 2026-2027 avremmo superato gli effetti dell’ultima crisi, ma ancora avremmo altri 4 punti percentuali da recuperare rispetto ai livelli del pil del 2007, prima della grande crisi finanziaria mondiale.
Stiamo affermando che alla fine di questo decennio rischiamo di produrre la stessa ricchezza reale di oltre 20 anni prima. Le distanze con l’Eurozona, che già si erano ampliate nel corso dell’ultimo decennio, non farebbero che allargarsi a nostro discapito. Ovviamente, non parliamo di un destino ineluttabile. Se varassimo riforme capaci di attirare capitali, di creare posti di lavoro e rafforzare la domanda interna, oltre che le esportazioni, potremmo anche accelerare il passo e rimetterci gradualmente in carreggiata con i nostri partner europei.
Rispetto agli anni passati, dovremmo attenderci una politica fiscale più espansiva, così come una monetaria ancora più accomodante. In un certo senso, ciò gioverà a non ripercorrere gli stessi passi post-2008/’09. Ma senza riforme, non si andrà da nessuna parte. Esse implicheranno la necessità di tagliare la spesa pubblica improduttiva per abbassare la pressione fiscale sui redditi, nonché di abbattere la burocrazia e di potenziare gli investimenti infrastrutturali. Il “Recovery Fund” agevolerebbe di molto quest’ultimo capitolo, ammesso che ci mostriamo capaci di sfruttarlo. Per quanto si alzerà la soglia di tolleranza riguardo al nostro debito, non potremo sfuggire all’impellenza di rivoltare la cosa pubblica come un calzino. L’alternativa sarebbe rassegnarsi a diventare un paese relativamente povero all’interno del mondo ricco.
Il debito pubblico corre verso i 2.600 miliardi