Una corsa senza sosta quella del rublo, che ha spinto la Banca di Russia ad annunciare nel primissimo pomeriggio di mercoledì una riunione straordinaria per il giorno seguente sui tassi d’interesse. E ieri, l’istituto guidato dal governatore Elvira Nabiullina ha ridotto il costo del denaro all’11% dal 14% precedente. I tassi erano stati alzati al 20% alla fine di febbraio per frenare il deflusso dei capitali dopo l’invasione dell’Ucraina. Mercoledì, infatti, il cambio tra rublo e dollaro si era portato sotto 56.
La Russia vuole fermare la corsa del rublo
Il “super” rublo si apprezza per tante ragioni, una delle quali consiste nelle imminenti scadenze fiscali. Molte aziende stanno convertendo i ricavi in valuta locale per pagare le tasse. E molti clienti europei del gas hanno già aperto il conto in rubli presso Gazprombank per ottemperare all’obbligo imposto da Mosca. Infine, i controlli sui capitali hanno funzionato così bene, che si è reso necessario allentarli. Tra l’altro, scende dall’80% al 50% la quota di ricavi che le aziende esportatrici russe dovranno convertire in rubli. E i cittadini potranno acquistare fino a 50.000 dollari al mese dal limite di 10.000 dollari fissato a febbraio.
Il rafforzamento del rublo sarebbe una buona notizia, in quanto riduce i costi dei beni importati e contiene i tassi d’inflazione. Tuttavia, la Banca di Russia stima che questi si porteranno alla fine dell’anno tra il 18% e il 23%. Per Nabiullina, l’inflazione rientra tra i “principali rischi per l’economia russa”. Poiché ad aprile è salita al 17,8%, ai massimi dal gennaio 2002, le aspettative cozzano apparentemente con l’andamento del cambio.
In effetti, sembra che il rublo ai massimi da 5 anni contro dollaro ed euro non stia disinflazionando l’economia russa. Come mai? Il punto è che i russi importavano già poco prima di pandemia e guerra, per appena il 15% del loro PIL. Adesso, con le sanzioni stanno acquistando dall’estero ancora minori beni. Dunque, il cambio forte giova ai consumatori russi in misura marginale. Rischia, al contrario, di colpire le loro finanze statali, dato che riduce la quantità di dollari ed euro incassati con la vendita di materie prime.
Prezzi più alti e scaffali meno pieni
La corsa dell’inflazione russa, poi, sarebbe il segno di una possibile contrazione dell’offerta interna. Decine e decine di multinazionali hanno chiuso battenti, uscendo dal mercato russo. Da Starbucks a McDonald’s, da Renault a Coco Chanel, l’addio (o l’arrivederci per qualcuno) significa una cosa: c’è meno disponibilità di prodotti sul mercato e questo starebbe innalzando i prezzi al consumo. E se la fuga dei marchi del lusso colpisce solamente la fetta più benestante della popolazione, la chiusura di stabilimenti e catene di negozi più popolari crea danni a tutti. Non solo si alzano i prezzi, ma si abbassano gli standard di vita.
Immaginate se domattina le aziende del resto d’Europa e americane smettessero di venderci i loro prodotti. I negozi resterebbero a corto di telefoni, PC, tablet, non troveremmo più sufficienti auto da acquistare, diverrebbe impossibile persino vestire un paio di jeans o pagare con bancomat o carta di credito. I marchi rimanenti ne approfitterebbero per alzare i prezzi, mentre inizieremmo a subire i contraccolpi della minore offerta anche in termini qualitativi. Non facciamoci ingannare dal super rublo. La vita per i russi si è fatta più maledettamente complicata con la guerra.