Mentre la Cgil di Maurizio Landini ipotizza tre quesiti referendari contro il Jobs Act, a distanza di un decennio dalla sua entrata in vigore, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano è intervenuto in questi giorni l’ex segretario Fiom, già leader di Potere al Popolo, Giorgio Cremaschi. E lo ha fatto con una narrazione nostalgica della “scala mobile”. A suo dire, il Decreto di San Valentino del governo Craxi segnò l’inizio dei guai per i lavoratori italiani. Fu la premessa per un cambiamento dei rapporti di forza nella società a favore delle imprese.
Come funzionava la scala mobile
Prima di addentrarci nella logica dell’intervista, dobbiamo chiarire cosa fu la scala mobile. Esso fu un meccanismo legislativo introdotto nel 1959 dall’allora governo Fanfani e benedetto dalla Confindustria di Gianni Agnelli nel 1975 tramite un accordo con i sindacati. Consisteva nell’adeguare automaticamente salari e stipendi al tasso d’inflazione attraverso i famosi “punti di contingenza”. Questi trasformavano la crescita percentuale dei prezzi al consumo in aumenti salariali, chiaramente in base ai contratti di categoria.
Inflazione italiana giù e sindacati sconfitti
Il Decreto di San Valentino, così chiamato per il fatto di essere stato varato il 14 febbraio del 1984, non abrogò la scala mobile, come riconosce lo stesso Cremaschi. Si limitò a bloccare temporaneamente i punti di contingenza per porre fine alla spirale inflazione-salari-inflazione. Accadeva, infatti, che l’alta inflazione provocata dalle due crisi petrolifere negli anni Settanta tendeva in Italia a rimanere sempre in doppia cifra, in quanto i salari dei lavoratori venivano adeguati automaticamente e rendevano strutturali i rincari.
Pur già in rallentamento, fu con il suddetto decreto che l’inflazione italiana iniziò finalmente a stabilizzarsi sotto la doppia cifra. Un successo per l’economia, non per i sindacati, che con la Cgil di Luciano Lama invocarono e persero malamente un referendum abrogativo nel 1985.
Confronto tra stipendi italiani e area Ocse
Perché Cremaschi rimpiange quella misura? A suo dire – ma questo è il pensiero di gran parte dei sindacati e della sinistra italiana – la fine della scala mobile avallò una sorta di resa dei conti del capitale nei confronti del mondo del lavoro. I dati indicano senza ombra di dubbio che il secondo sia stato il perdente degli ultimi trenta anni. L’incidenza delle retribuzioni sul PIL è scesa al 40%. Tra il 1990 e il 2020 risultano diminuite del 2,9% in termini reali contro una crescita superiore al 30% nell’area Ocse. E tra il 1991 e il 2022 la crescita reale è stata appena dell’1% contro il +32,5%.
Questi dati segnalano due cose: i lavoratori italiani non hanno compiuto alcun passo in avanti da inizio anni Novanta; nel resto del mondo avanzato, le cose sono andate molto meglio per i loro colleghi, pur in assenza della scala mobile. Dunque, Cremaschi dovrebbe spiegare perché altrove gli stipendi siano cresciuti e da noi no. Lo scorso anno, ad esempio, le retribuzioni sono aumentate del 2,6% nei primi nove mesi dell’anno contro un’inflazione nell’intero 2023 al 5,7%. Ne consegue che i dati di cui sopra si mostrano in ulteriore peggioramento, se aggiornati.
Sindacati italiani inadeguati
I sindacati non sono gli unici responsabili di questa caduta degli stipendi reali. Condizioni macro hanno portato nei decenni ad una stagnazione salariale, tra cui la scarsa produttività del lavoro. Tuttavia, il rimpianto per la scala mobile da un lato e la rivendicazione del salario minimo dall’altro sono spie di un fallimento delle varie sigle di rappresentanza del mondo del lavoro. Equivale a prendere atto che, in assenza di automatismi legali, i sindacati non si sentono in grado di negoziare accordi favorevoli ai loro iscritti.
Dopodiché, Cremaschi e compagnia cantante dovrebbero avere in mente come obiettivo non già il mantenimento dei livelli reali delle retribuzioni, bensì il loro miglioramento. La scala mobile si limita a difendere il potere di acquisto e, tralasciando quanto accaduto nell’ultimo biennio, il principale problema dei lavoratori italiani non è stata l’inflazione dagli anni Novanta in avanti. Questo ritorno al passato in chiave nostalgica cela la presa d’atto dell’insussistenza del sindacato, i cui principali rappresentanti hanno quasi sempre, per non dire sempre, sfruttato le cariche per fare successivamente carriera in politica o nel sottobosco della politica.
La fine della scala mobile salvò l’economia italiana
Senza il Decreto di San Valentino l’Italia sarebbe andata a rotoli definitivamente già prima che cadesse il Muro di Berlino. L’inflazione avrebbe divorato la lira e le necessarie (ancora più forti) svalutazioni l’avrebbero ridotta alla portata della dracma greca. Tutto senza migliorare il benessere dei lavoratori, i quali avrebbero percepito buste paga in linea con il potere di acquisto di anni prima. Il guaio per i dipendenti non è stata la fine della scala mobile, bensì una politica intenta a coltivare il consenso ipotecando conti pubblici e crescita economica futura. E su quello i sindacati non ebbero da ridire. Anzi, si rallegrarono delle baby pensioni e delle assunzioni di massa nella Pubblica Amministrazione. Oggi, piangono lacrime di coccodrillo e invocano la trita e ritrita lotta al “neoliberismo” per cancellare le loro stesse colpe.