La Banca Nazionale Svizzera si aspetta una perdita di 15 miliardi di franchi per il 2018. Lo ha comunicato lo stesso istituto, che segnala così una netta inversione di tendenza rispetto al 2017, quando riportò un maxi-utile da 54,3 miliardi. Il risultato è frutto del rafforzamento del cambio, che ha ridotto il valore delle riserve in valuta estera, pari a 729 miliardi alla fine di dicembre, il 2,7% in meno rispetto al mese prima, ma abbondantemente sempre sopra il pil elvetico, pari a circa 680 miliardi. Il franco svizzero aveva iniziato il 2018 con un tasso di cambio contro l’euro a 1,17 e lo ha finito a 1,1270, dopo che nei primi mesi dell’anno si era riportato nei pressi di 1,20 per la prima volta dalla fine del cambio minimo, avvenuta alla metà di gennaio del 2015.
Non tutto è dovuto all’effetto cambio. Il 20% delle riserve in valuta estera è investito in azioni e sappiamo che il mercato americano e quello europeo si sono contratti nel corso del 2018, colpendo anche per tale via il valore degli assets acquistati dalla BNS. Considerando che l’euro costituisce circa il 40% delle posizioni dell’istituto, possiamo affermare che per ogni +1% messo a segno dal franco contro la moneta unica, il valore delle riserve si riduce di circa 3 miliardi di franchi. Grosso modo, lo stesso dicasi per il dollaro. Resta il fatto che nel decennio che va dal 2009 al 2018, l’istituto ha registrato un totale di circa 78 miliardi di franchi di utile.
Altri 300 milioni di perdita sono stati registrati anche per le riserve auree. Nonostante ciò, la BNS distribuirà un utile di 2 miliardi ai 26 cantoni e al governo confederale, di cui i due terzi in favore dei primi. Ed essendo quotata alla Borsa di Zurigo, i 2.000 investitori privati attingeranno a un dividendo di 15 franchi per azione, il massimo consentito dallo statuto. Si consideri che una singola azione vale oggi 4.850 franchi, 4 volte in più rispetto a solo 2 anni e mezzo fa, per cui il dividendo renderebbe solamente lo 0,31%.
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I rischi crescenti per la BNS
Del resto, la BNS non ha come obiettivo la distribuzione di utili agli azionisti pubblici e privati, bensì il raggiungimento del target d’inflazione al 2%. Da questo punto di vista, l’operato del governatore Thomas Jordan viene frustrato da anni, se si considera che la crescita tendenziale dei prezzi sia ancora di appena lo 0,7% e che l’inflazione “core” risulti ancora più bassa, in area 0,3%. Questo, nonostante da ben 4 anni l’istituto abbia fissato i tassi in territorio negativo, tagliandoli al -0,75%, così da evitare che il franco si apprezzasse troppo per via degli afflussi copiosi di capitali dall’estero. Invece, i rendimenti sovrani svizzeri sono nuovamente scesi negli ultimi mesi e si mostrano negativi fino alla scadenza decennale, mentre il bond a 50 anni non arriva ad offrire nemmeno lo 0,50%, segno che il mercato continui a puntare sulla Svizzera come porto sicuro contro le tensioni internazionali (Brexit, Eurozona, guerra commerciale), confidando magari in un ulteriore apprezzamento del suo cambio.
Non è questa la scommessa di Jordan, che punta a deprezzare il franco, considerandolo ancora “sopravvalutato”. Il problema è che nel caso in cui non fosse accontentato, il valore delle riserve si ridurrebbe, infliggendo perdite potenzialmente elevatissime alla BNS. Anche per questo, contrariamente a quanto accade per le altre banche centrali, quella svizzera si è buttata sul mercato azionario, probabilmente per cercare di reggere sul piano contabile se il cambio dovesse continuare a restare forte e gli acquisti di assets stranieri proseguissero nel tentativo di indebolirlo. Aspetti, che ci segnalano come la BNS si stia esponendo a rischi crescenti rispetto al mercato dei cambi, obbligazionari e azionari con l’allentamento della sua politica monetaria.
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