Avanti a passo di gambero. Il Venezuela sembrava finalmente procedere verso la giusta direzione di un incipiente tentativo di riappacificazione nazionale, prodromico alla cessazione delle sanzioni USA contro la sua economia. Invece, il regime di Nicolas Maduro ha sospeso i colloqui con le opposizioni, annunciando domenica che non parteciperà al prossimo round dei negoziati che si sarebbero dovuti tenere a Città del Messico. L’irrigidimento è arrivato dopo l’estradizione del faccendiere colombiano Alex Saab da Capo Verde agli USA, dove risulta ricercato per reati legati alla corruzione e al traffico di generi alimentari.
L’uomo era stato arrestato nello stato africano nel 2020, ma Caracas ritiene che goda dell’immunità diplomatica, essendo stato accreditato presso l’Unione Africana. Fatto sta che di passi avanti verso la normalizzazione il Venezuela non ne sta compiendo all’atto pratico. Mentre l’inflazione viaggia ancora a poco meno del 2.000% all’anno (dato di settembre), il paese non sta riuscendo a mettere le mani sui 5 miliardi di dollari a cui in teoria avrebbe accesso grazie all’aumento dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) presso il Fondo Monetario Internazionale.
I DSP sono stati aumentati di 650 miliardi proprio per venire incontro alle economie più deboli con la pandemia. Tuttavia, i fondi restano preclusi al Venezuela, a causa della disputa internazionale su cui avrebbe titolo di farne richiesta. Gli USA e un’altra cinquantina di stati non riconoscono più il regime “chavista” dall’inizio del 2019. Ufficialmente, la banca centrale ha innalzato il dato delle riserve valutarie a 11,2 miliardi di dollari a settembre, ma nei fatti ne continua a disporre meno di 6,2 miliardi.
Petrolio Venezuela, pozzi a secco e pochi dollari
Da questo mese, sta emettendo banconote con sei zeri in meno. Nel tentativo di sostenerne i corsi, sta raddoppiando a 40 milioni di dollari a settimana le iniezioni di valuta straniera forte sul mercato.
A settembre, ha estratto appena 650.000 barili al giorno, pur in rialzo dai minimi di 430-450.000 dei mesi passati. Ma prima di questa potente crisi, riusciva a produrre la media di oltre 2,5 milioni di barili al giorno. A causa di decenni di sotto-investimenti, mancano all’appello almeno 2 milioni di barili al giorno rispetto agli stessi livelli lasciati in eredità da Hugo Chavez, a loro volta inferiori a quelli ricevuti in eredità a fine anni Novanta. Considerati i prezzi vigenti sui mercati e lo sconto applicato per il greggio pesante venezuelano nell’ordine di almeno 5 dollari al barile sul WTI, possiamo stimare le perdite in circa 55 miliardi all’anno. E con un costo di produzione sotto i 30 dollari, la compagnia petrolifera statale PDVSA starebbe gettando nel bidone dell’immondizia qualcosa come 30 miliardi di utili su base annua.
Finché le sanzioni rimarranno in vigore, il Venezuela non avrà modo di potenziare la propria produzione di petrolio. Non potrà confidare sulle partnership con compagnie straniere, né sull’accesso ai mercati finanziari. Peraltro, da quattro anni è ufficialmente in default e non ha neppure avviato un colloquio con i creditori per giungere a una qualche forma di ristrutturazione del debito. Il regime si arrangia con qualche sotterfugio, come la vendita dell’oro delle riserve al mercato nero internazionale e il contrabbando di greggio.