Secondo GlobalData, una società di analisi, la produzione di petrolio in Venezuela tenderebbe a diminuire al ritmo del 10% in meno per trimestre e ciò porterebbe i livelli delle estrazioni ad appena 1 milione di barili al giorno entro la fine dell’anno, ovvero di 500.000 in meno rispetto ad aprile. Si consideri che ancora nel 2011, Caracas estraeva dai suoi pozzi 3 milioni di barili al giorno. La situazione sta diventando così drammatica, che nei giorni scorsi la compagnia petrolifera statale PDVSA ha comunicato a 8 clienti di non essere in grado, “causa forza maggiore”, di tenere fede ai contratti siglati e che prevedono consegne per 1,495 milioni di barili al giorno a giugno, a fronte dei 694.000 effettivamente disponibili.
Il Venezuela della fame e dei prezzi pazzi rielegge Maduro in elezioni farsa
Secondo il Prof Steve Hanke, alla fine di maggio l’inflazione nel Venezuela sarebbe arrivata al 27.364%. Basta anche seguire il tasso di cambio tra bolivar e dollaro al mercato nero, come monitorato quotidianamente da Dolartoday, per capire che ormai il collasso economico sarebbe avvenuto: servono 2,05 milioni di bolivares per un solo dollaro, quando fino a qualche mese fa a Caracas veniva tenuto un cambio fisso di 1:10 e persino quello illegale viaggiava nell’ordine di alcune decine di migliaia. Insomma, la moneta venezuelana vale carta straccia, nel paese andino mancano dollari per importare beni e servizi e gli scaffali dei negozi, così come le pance di oltre 30 milioni di abitanti, sono vuoti.
PDVSA ha estratto la media di 1,62 milioni di barili al giorno nei primi 4 mesi dell’anno, esportandone tra gennaio e marzo appena 1,19 milioni. Questi numeri ci dicono un paio di cose allarmanti: i livelli produttivi sono scesi ai minimi da oltre 3 decenni e per il mercato domestico non vi sono disponibili più di 400.000 barili al giorno, causa e conseguenza allo stesso tempo di un’attività produttiva praticamente annientata da assenza di offerta.
Esodo di massa dal Venezuela
L’Organizzazione degli Stati Americani ha votato 19 a 4 la sospensione del Venezuela per le violazioni democratiche avvenute in occasione delle elezioni presidenziali del 20 maggio scorso, una farsa del regime “chavista”, che ovviamente ha trionfato con circa i due terzi delle schede a favore. 11 stati si sono astenuti e poiché per la sospensione serviva la super-maggioranza di 24 su 35, sarà il vertice dei ministri degli Esteri ad avere l’ultima parola. La sospensione, in realtà, farà dormire sonni tranquilli al rieletto presidente Nicolas Maduro, poiché non comporta alcunché di concretamente negativo per Caracas, certamente non condizioni peggiori di quelle aberranti a cui è costretta a vivere già da mesi la popolazione. Tuttavia, essa segnerebbe il giusto pretesto per spingere pure la UE a comminare sanzioni individuali e mirate contro il regime, dopo che nell’agosto scorso l’amministrazione Trump è intervenuta bloccando l’accesso del paese ai dollari, tagliandolo fuori dal circuito finanziario americano e sostanzialmente impedendogli di onorare le scadenze sul debito, tant’è che dalla fine dello scorso anno versa formalmente in default.
Collasso del Venezuela, dove torna il baratto
Il collasso delle estrazioni petrolifere venezuelane sta contribuendo nelle ultime settimane ad alimentare la crescita delle quotazioni e la carenza di offerta inizia a mordere, se è vero che il presidente americano Donald Trump ha chiesto all’Arabia Saudita di tornare ad aumentare la produzione di 1 milione di barili al giorno insieme agli alleati dell’OPEC (e alla Russia) per fare fronte all’emergenza di Caracas.