Non tutte le economie del pianeta sono andate in recessione nel 2020. Sappiamo che la Cina, epicentro della pandemia che ha investito il pianeta come un treno ad alta velocità, se l’è cavata con una crescita del PIL del 2,3%. Ma il suo vicino di casa ha fatto pure meglio. Il Vietnam stima di essere cresciuto del 2,9%. E quest’anno, dovrebbe accelerare al 6,5%, sebbene gli analisti di Bank of America puntino al 9,3%. Nelle comparazioni internazionali, poi, risulterebbe che l’economia vietnamita quest’anno crescerebbe dell’1,5% in meno rispetto allo scenario che si sarebbe avuto senza il Covid.
Malgrado la sua vicinanza alla Cina, Hanoi se la sarebbe cavata ad oggi con poco più di 2.300 contagi e appena 35 morti. Prima di lasciare la Casa Bianca, il presidente Donald Trump ha inserito il dong vietnamita tra le valute oggetto di manipolazione dei tassi di cambio, così come il franco svizzero. In teoria, il Tesoro americano sarebbe giustificato nell’intervenire con sanzioni commerciali a protezione delle imprese americane. In realtà, un simile passo è inatteso e non solo perché l’amministrazione Biden si mostrerà meno impulsiva su un tema così delicato, ma anche perché paradossalmente, a distanza di mezzo secolo dalla sanguinosa guerra con gli USA, oggi i vietnamiti sono considerati tra i popoli più filo-americani al mondo. Sono stati tra i maggiori sostenitori anche dello stesso Trump.
Il PIL pro-capite resta relativamente basso, ma in un decennio è più che raddoppiato a circa 2.770 dollari, superando quello di economie come l’India. Il segreto del suo successo? Le esportazioni. Nel 2010, ammontavano a soli 83,5 miliardi di dollari, pari al 72% del PIL. Nel 2020, erano esplose a 281,5 miliardi, l’82,6% del PIL. Ma per capire la svolta bisogna andare indietro nel tempo al 1986, quando il regime comunista di Hanoi abbracciò la politica del “doi moi”, letteralmente del “rinnovamento”.
Il Vietnam si mette alle spalle la guerra e oggi ama l’America
Il reshoring farà bene al Vietnam
Ma è innegabile che il boom degli ultimi anni sia stato trainato anche dal fenomeno della “relocalizzazione” delle imprese. Molte multinazionali hanno spostato la loro produzione dalla Cina, dove il costo del lavoro è salito, optando per realtà come il Vietnam, in cui il PIL pro-capite si attesta ancora a un quinto dei livelli di Pechino. Il tessile ne sta beneficiando parecchio, ma anche il turismo sta facendo la sua parte, sebbene proprio questo settore sia stato il più colpito dalla pandemia e dovrebbe restare sotto i livelli pre-pandemici ancora per un po’.
A fine gennaio, il Congresso del Partito Comunista ha accelerato la svolta, tra l’altro varando un nuovo piano quinquennale, con il quale si punta a far sì che entro il 2025 l’economia vietnamita sia per oltre la metà generata dal settore privato, in rialzo dal 42% attuale. In particolare, le imprese private dovrebbero più che raddoppiare dalle 700 mila di oggi a 1,5 milioni e per arrivare a 2 milioni nel 2030. E per il 2025, anche il PIL pro-capite dovrà raddoppiare, portandosi a ridosso dei 5.000 dollari.
Il modello vietnamita viene seguito con attenzione dalla Corea del Nord, il cui leader Kim Jong-Un vorrebbe liberalizzare in misura crescente l’economia senza perdere il controllo del potere. Ma la grande differenza con Hanoi risiede tutta nell’assenza di buone relazioni con il resto del mondo. Il Vietnam si è messo alle spalle la guerra con gli USA e ha guardato avanti, commerciando con tutti e non venendo più ritenuto una minaccia dai suoi stessi nemici storici.
Modello Vietnam per Kim Jong-Un ad Hanoi per incontrare Trump, che promette il boom economico