Imposta di bollo su conti deposito, ecco la beffa sui titoli lunghi

L'imposta di bollo sui conti deposito può rivelarsi una beffa particolarmente per le obbligazioni a lunga scadenza. Vediamo perché.
8 mesi fa
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Imposta di bollo sui conti deposito possibile beffa
Imposta di bollo sui conti deposito possibile beffa © Licenza Creative Commons

Si parla spesso di introdurre una “patrimoniale” in Italia, quando di imposte simili ve ne sono in vigore da anni fin troppe. Lo sanno benissimo i risparmiatori. Dal 2012 esiste l’imposta di bollo sui conti deposito titoli, una “mini-stangata” sugli investimenti di natura finanziaria a cui non si può sfuggire. Infatti, per acquistare asset come azioni, obbligazioni, quote di fondi e Etf bisogna aprire proprio un conto deposito. E ciò comporta, oltretutto, il sostenimento di costi legati al mantenimento dello stesso, essendo un servizio erogato dalle banche, non certo enti di beneficenza.

Imposta di bollo grava sugli investimenti

Con la legge di Stabilità 2014 l’imposta di bollo è stata innalzata allo 0,20%, aliquota ancora oggi in vigore. Fu allora eliminata l’imposta minima di 34,20 euro, mentre quella massima per le persone non fisiche venne innalzata a 14.000 euro. Significa che il balzello smette di agire su asset di valore superiore ai 7 milioni di euro. Oltre ad essere un costo che deprime il rendimento di un investimento, finisce spesso per trasformarsi in una possibile beffa.

L’imposta di bollo è dello 0,20% annuale, anche se le banche generalmente applicano la trattenuta su base trimestrale. Alla fine di ogni trimestre, addebitano sui conti deposito lo 0,05% (0,20% : 4). A quale base imponibile? Essa è data dal valore di mercato degli asset in portafoglio. E questa è una precisazione non di poco conto. Non è il prezzo di acquisto a rilevare ai fini impositivi, né il valore nominale nel caso di un’obbligazione.

Esempio di applicazione sul conto deposito

Per capire le differenze, facciamo un esempio semplicissimo. Tizio compra obbligazioni della società Alfa per un valore nominale di 1.000 euro, ma ad una quotazione di mercato di 85 centesimi. Significa che alla scadenza il capitale gli sarà rimborsato a 1.000 euro, mentre egli ha speso 850 euro per acquistare il titolo. L’imposta dello 0,20% non si applica né ai 1.000 euro, né agli 850 euro.

Essa insiste sul valore di mercato al termine di ogni trimestre. Ad esempio, se le obbligazioni salgono a 90 centesimi nell’ultima seduta di marzo, la banca addebiterà a Tizio la seguente imposta di bolla: 1.000 x 0,90 x 0,05% = 4,50 euro. L’investitore sta pagando meno di quanto dovrebbe in base al valore nominale del titolo, ma di più rispetto al prezzo di acquisto.

Questa previsione legislativa comporta una conseguenza potenzialmente dirompente per i titolari di obbligazioni a lunga scadenza. Trattasi di titoli dall’alta volatilità, in conseguenza dell’elevata “duration”. In pratica, si mostrano sensibili alle variazioni dei rendimenti. Ne sanno qualcosa coloro che negli anni passati avevano investito proprio in obbligazioni a lunga scadenza per ottenere rendimenti almeno dignitosi. I prezzi di ingresso furono, in molti casi, esosissimi. Non appena la Banca Centrale Europea ha iniziato a prospettare un aumento dei tassi, questi sono crollati, infliggendo perdite notevoli.

Differenze tra capitale nominale e valore di mercato

Volete un esempio concreto? Il bond austriaco 2117 arrivò a quotare a 230 al termine del 2020. In pratica, per acquistarne 1.000 euro nominali bisognò sborsare 2.300 euro. Una follia figlia dei tempi. Questo titolo sprofondava nell’autunno scorso a poco più di 60 centesimi e ancora oggi si aggira a meno di 77 centesimi. Mettetevi nei panni dell’ipotetico investitore italiano. Alla fine del 2020, si ritrovò a pagare un’imposta di bollo dello 0,05% su un asset del valore di mercato di 2.300 euro. Oggi, se volesse rivendere quello stesso bond, incasserebbe intorno ad un terzo di tale valore. Solo che nel frattempo è stato costretto a pagare allo stato come se avesse riportato un guadagno nei fatti inesistente.

Vero, al momento sta accadendo il contrario. L’investitore paga meno rispetto al valore nominale del bond, ma per i titoli a lunghissima scadenza è molto probabile che il valore di rimborso del capitale abbia scarso senso.

A meno di essere un obbligazionista cassettista, non attenderà fino all’ultimo giorno, ma rivenderà prima. Ciò è particolarmente vero per titoli della durata di un secolo. Dunque, se ci si trova a rivendere un tale bond per limitare le perdite accusate con il tracollo della quotazione, non si farebbe in tempo a compensare l’alta imposta di bollo pagata quando i prezzi erano alti. Lo stato si è intascato un gettito derivante da un guadagno solo virtuale.

Imposta di bollo beffarda per possessori di titoli lunghi

Ricordiamo che nel caso in cui la rivendita o la semplice scadenza comportassero una plusvalenza, essa verrebbe tassata al 26% (12,50% per i titoli di stato). L’imposta di bollo è a tutti gli effetti un doppione, ma che agisce in maniera beffarda nel caso in cui l’investitore abbia detenuto sul conto titoli per gran parte del tempo un’obbligazione a prezzi nettamente sopra il valore nominale e/o di rivendita. In realtà, simili dinamiche possono avvenire lungo l’intera curva, anche se per quanto spiegato sopra, i titoli lunghi pagano maggiormente pegno nel caso di aumento dei rendimenti.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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